domenica 9 novembre 2014

DA DENTRO A FUORI – SAN VITTORE GLOBE THEATRE: a colloquio con Maria Laura Fadda


DA DENTRO A FUORI – SAN VITTORE GLOBE THEATRE: un progetto che si compone di un
documentario e di uno spettacolo teatrale, realizzato nell'arco di sei mesi all'interno del carcere dall'Associazione ORBITE FUORI CENTRO e diretto da Donatella Massimilla del Centro Europeo Teatro e Carcere (CETEC).
Lo spettacolo andrà in scena al Piccolo Teatro di Milano il 19 e il 20 novembre 2014, nell'ambito della stagione teatrale.

Ne parliamo con chi è a quotidiano contatto con il mondo carcerario, ne conosce bene la realtà ed è particolarmente sensibile alle problematiche correlate allo stato di detenzione: la dottoressa Maria Laura Fadda, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di sorveglianza di Milano.

Come valuta questa iniziativa che coinvolge in prima persona i detenuti?
I detenuti non sono persone "fuori" dalla società, ne hanno fatto parte quando erano liberi e torneranno a farne parte quando usciranno dal carcere.
Il teatro in carcere rappresenta una delle espressioni più alte ed efficaci di un modello educativo "non formale" che ha lo scopo di stimolare e accompagnare il cambiamento profondo delle persone. Questo può avvenire se i detenuti non rimangono soltanto "spettatori" delle rappresentazioni teatrali che entrano in carcere con l'unico scopo di intrattenere o divertire, ma se vengono coinvolti e introdotti all'interno della rappresentazione ove possono "mettersi in gioco".
Il progetto "DA DENTRO A FUORI" diretto da Donatella Massimilla, da anni attiva nelle carceri milanesi e internazionali, esprime plasticamente, anche nel nome, la finalità e la funzione che mi sembra essere fondante: "DA DENTRO A FUORI" non significa solo far uscire i detenuti fisicamente dal carcere per farli recitare in un prestigioso teatro cittadino (esperienza che pure ha un forte valore simbolico), ma significa soprattutto portare il mondo del "DENTRO", per definizione chiuso e sconosciuto, "FUORI", all'esterno delle mura.
Con questa operazione il teatro in carcere raggiunge il suo scopo educativo più importante, che non è solo quello di acquisire la capacità di impegnarsi con continuità, di imparare a lavorare in un gruppo rispettando i tempi e le esigenze degli altri, di imparare a mettersi in gioco e di affrontare le difficoltà di una prova, pure importanti. Accade qualcosa di più: quando il detenuto diventa attore, diventa, seppure entro i confini del testo da recitare, come esperienza emozionale, libero.
Ecco il valore aggiunto del teatro in carcere come esperienza educativa: compiere quella che dovrebbe essere la finalità della pena e cioè l'educazione alla libertà.

Il mondo carcerario  soffre di isolamento rispetto alla c.d. società civile. Che importanza possono avere iniziative di questo tipo al fine di ridurre l'isolamento?
Ridurre l'isolamento del carcere, che rappresenta un'istituzione totale chiusa e dunque non potrà mai, se non ne cambiano le regole fondanti, diventare un mondo del tutto trasparente, rappresenta un'operazione culturale molto complessa; i molti anni di "pratica carceraria" mi fanno pensare che il carcere è vittima ma anche colpevole del suo isolamento, che da un lato lo ghettizza, ma allo stesso tempo gli consente di mantenersi in vita.
Premesso questo, e dunque ricordata la complessità del problema, penso che iniziative, ma qui più che di iniziativa estemporanea si tratta di un vero e proprio progetto attivo da anni nell' istituto di San Vittore,  sicuramente contribuiscano a rendere la società più consapevole che le persone che stanno in carcere, come ho detto prima non sono persone "fuori" dalla società, ne hanno fatto parte quando erano liberi e torneranno a farne parte quando usciranno dal carcere.
Penso però che il progetto teatrale serva soprattutto a ridurre l'isolamento se non dell'istituzione, del soggetto istituzionalizzato, spesso sofferente di marginalità socioculturale per creare condivisione, comunità, senso di appartenenza, coesione. Recitare un testo teatrale può offrire un doppio sostegno a chi deve passare la propria esistenza, magari per molti anni, in pochi metri quadrati, permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi o coartati, spinge alla cooperazione e alla solidarietà. In questo senso il teatro in carcere getta un ponte tra il DENTRO e il FUORI.
Ma il ponte sarà stabile e non cederà alle prime piogge, se anche il "teatro" saprà cogliere gli stimoli che pervengono dal "Dentro". L'attore detenuto, infatti, può a mio avviso rappresentare un valore aggiunto per la compagnia teatrale, poiché in quanto non professionista è portatore di una genuinità e un'autenticità spesso non rinvenibile nell'attore professionista, che quando recita compie semplicemente il suo lavoro.
La reclusione, che rappresenta la differenza tra il teatro "normale" e quello in carcere, può diventare il valore aggiunto di un'opera che si carica di energie, emozioni, sofferenze, frustrazioni particolari che donano una potenza drammatica particolare e unica alla rappresentazione.
Voglio dire che il teatro in carcere in questi anni, e il caso di San Vittore ne è una dimostrazione, ha rappresentato esperienze di grande valore artistico, riconosciute anche dalla critica che molto si è spesa in analisi del settore. E' come se fosse nato un teatro nuovo che collega la grande tradizione artistica italiana alle svariate forme di sperimentazione di questi decenni.

Pensa che, dal punto di vista rieducativo del detenuto, sia importante poter comunicare con il mondo di fuori?
Certamente occorre essere consapevoli che il percorso rieducativo del detenuto non può essere compiuto tutto e soltanto all'interno del carcere; per significare questo da tempo, più che di "rieducazione" termine dai connotati paternalistici, si parla di "reinserimento", "reinserimento sociale".
Penso che questo intendessero i nostri padri costituenti quando stabilirono all'art. 27 della Costituzione la finalità rieducativa della pena, esprimendo la possibilità di cambiamento e di miglioramento dell'uomo, nonostante fossero usciti da un periodo storico in cui sembrava aver trionfato il male assoluto.
Chi lavora con il mondo dell'esecuzione della pena dovrebbe essere guidato da questa opzione culturale e spendere le proprie energie perché ciò avvenga. Ora, può sembrare che rinchiudere per meglio reinserire sia una contraddizione troppo difficile da superare, e sarebbe in effetti così se già durante l'esecuzione della pena non vi fosse la possibilità di far uscire gradualmente dal carcere le persone che hanno raggiunto un livello di maturazione del rispetto delle regole tale da non essere più pericolose per la collettività.
La comunicazione con il mondo che sta fuori dal carcere è un elemento importantissimo del trattamento rieducativo; pensiamo al valore che ha mantenere i rapporti affettivi con i familiari attraverso le telefonate, i colloqui o anche i permessi, oppure poter uscire dal carcere la mattina per andare a lavorare e poi tornare la sera. Sono tutte esperienze che non solo consentono di evitare quello che viene definito l'effetto desocializzante del carcere (e cioè il contrario del reinserimento sociale), ma che aiutano le persone detenute a non uscire a fine pena in  condizioni peggiori di quando erano entrati.
Ancora una volta torniamo a quanto dicevo all'inizio, e cioè che occorre comprendere che chi è in carcere prima o poi uscirà: è compito nostro, sia di noi operatori, ma aggiungo, della società tutta che non esca incattivito, umiliato, abbandonato.

Che incidenza può avere una maggiore conoscenza della realtà detentiva da parte della c.d. società civile rispetto all'opera di risocializzazione di chi è stato in carcere?
In Lombardia e soprattutto nel distretto della Corte d'Appello di Milano, la società civile tutta, dal mondo imprenditoriale, bancario e cooperativo, all'associazionismo, al volontariato laico e cattolico svolge un ruolo fondamentale per favorire il reinserimento sociale dei detenuti.
C'è molta attenzione a questa problematica e desiderio di impegno civile, anche nei giovani, che si traduce in un'estrema ricchezza di iniziative organizzate sia dentro che fuori dal carcere; tale ricchezza rappresenta un valido ausilio per gli istituti di pena, nel tempo diventati sempre di più istituzioni fragili in quanto sovraffollati a paralizzati dal taglio delle risorse.
Posso tranquillamente affermare che senza questo apporto le opportunità di reinserimento lavorativo o comunque educativo sarebbero del tutto insufficienti. Conseguentemente, tanto più il carcere rimane in città, come un pezzo della città e non come un corpo estraneo da espellere là dove non può essere "visto", tanto più il rapporto con la società civile potrà essere più stretto e proficuo.
Uso il termine "rapporto" non a caso, ma perché voglio significare che il carcere è un luogo che non solo "prende" , ma anche "dà" alla società civile.
E' presente un forte desiderio di "restituzione" che è nostro compito raccogliere e incanalare nel modo giusto, come ad esempio già avviene quando i detenuti vanno nelle scuole a parlare ai ragazzi della violenza e del bullismo o durante la giornata di ferragosto con la pulizia dell'Idroscalo.
Sicuramente anche un' opera teatrale che nasce in carcere, ma viene rappresentata in un importante teatro cittadino rappresenta un positivo esempio di "scambio" culturale.
Credo che il significato più vero di "DA DENTRO A FUORI" sia questo: un teatro che opera in carcere e dunque un teatro fondato sull'ascolto dei luoghi in cui opera, sull'attenzione alle biografie delle persone coinvolte, sulla fatica di convivere con un'istituzione estranea e forse anche ostile, porta all'esterno un messaggio molto forte.
Allo stesso tempo, la possibilità per i detenuti attori di uscire e calcare la scena in un luogo ove molto probabilmente non sono mai entrati da liberi e di cui mai hanno sperimentato l'emozione, anche di spettatori, rappresenta un arricchimento interiore non svendibile, non barattabile con altri tipi di esperienze educative.
In conclusione, se certo il teatro non è la soluzione per risolvere i problemi del carcere o del trattamento rieducativo, può però affermarsi che il teatro rappresenta un utile ed efficace strumento di recupero della persona che, per motivi più o meno gravi, si è perso.