giovedì 21 novembre 2013

25 NOVEMBRE: GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

Il 17 dicembre 1999 una risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito il 25 novembre come Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.

La data è stata scelta in ricordo del brutale assassinio avvenuto nel 1960 delle tre sorelle Mirabal, considerate  esempio di donne rivoluzionarie per l'impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo (1930-1961), dittatore della Repubblica Dominicana.

Si racconta che il 25 novembre 1960 le sorelle Mirabal furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione; condotte in un luogo nascosto furono torturate, massacrate a colpi e strangolate, per poi essere gettate in un precipizio a bordo della loro auto, così da simulare un incidente.

Il Segretario Generale dell'ONU, Ban Ki-moon,  ricorda nel suo messaggio che il 25 novembre segna l'inizio del periodo, che durerà fino al 10 dicembre, dedicato alla sensibilizzazione dell'opinione pubblica sui contenuti della Giornata, e quest'anno invita a indossare qualcosa di arancione, simbolo e richiamo sui temi del giorno.

Fra tutti gli appuntamenti che ruotano intorno alla data del 25 novembre, anche raccogliendo il messaggio affinché si crei una cultura di rispetto, lanciato a New York nella conferenza stampa di presentazione della Giornata da Michelle Bachelet, vice segretario generale e direttore esecutivo di UN WOMEN (l'agenzia recentemente istituita dall'ONU), scegliamo di segnalare l'iniziativa della Provincia di Parma che coinvolge gli studenti delle classi seconde, terze, quarte e quinte degli istituti superiori di Parma e provincia, nell'analisi del linguaggio usato da giornali e tv nel raccontare molestie e femminicidi.

Sono infatti i media e il loro linguaggio, le parole scritte e dette da radio, tv, siti, giornali, per raccontare la violenza sulle donne il tema sul quale si incentrerà la nona edizione del Premio Colasanti – Lopez. Gli studenti saranno chiamati a riflettere sulle notizie e la loro diffusione, sul linguaggio che tratta la violenza contro le donne e più precisamente il genere femminile, spesso una ulteriore forma di aggressione che offende e agisce in profondità non sul corpo ma sulle menti, soprattutto dei giovani.

Il Premio Colasanti - Lopez evoca i cognomi di due ragazze, Donatella e Rosaria, protagoniste di una terribile storia, quella di due amiche segregate, stuprate e picchiate a morte in quello che fu definito proprio dalla stampa il "massacro del Circeo", che costò la vita di Rosaria, il cui corpo fu ritrovato il 29 settembre 1975 nel bagagliaio di una 127.  Un fatto di cronaca di molto tempo fa, che è giusto ricordare perché si tenga vivo il senso di ciò che accadde come afferma Marcella Saccani della giunta provinciale parmense.

E' un'iniziativa importante, quella della Provincia di Parma, ad alto tasso di significato, che pur rivolgendosi alle nuove generazioni, riguarda direttamente anche le donne e gli uomini di oggi, nell'irrinunciabile e fondamentale opera di diffusione di un'educazione al rispetto e ai sentimenti, auspicata e promossa pure nei post di questo blog (cfr. post del 14 aprile 2013 e del 20 agosto 2013).

Dialogo e comunicazione appaiono gli strumenti più concreti per uscire dalla situazione di allarme quotidianamente denunciata dalle cronache, ma è evidente che i contenuti dell'uno e dell'altra giocano un ruolo essenziale.

A proposito di contenuti, segnaliamo anche:

l'articolo di Ildefonso Falcones sul Corriere della Sera che racconta delle Majas del '700, le altere e impavide madrilene del popolo che restano un esempio di coraggio anche ai giorni nostri;

l'evento organizzato il 25 novembre 2013 a Roma in via Clementina  7 da  PerìArχôn – Cenacolo di cultura archetipica con Luigi Turinese sul tema della mistica islamica femminile.



venerdì 8 novembre 2013

NON SOLO MEMORIA: OMICIDIO DI CATALDO


Corriere Della Sera - Cronaca di Milano 31 ottobre 2013
Il 31 ottobre 2013, sulle pagine della cronaca milanese del Corriere della Sera, Paolo Foschini racconta di Francesco Di Cataldo, nipote del maresciallo Di Cataldo, in servizio a San Vittore come vicecomandante degli agenti di custodia, ucciso dalle Brigate Rosse il 20 aprile 1978, a soli 51 anni: secondo le cronache,  viene freddato da un commando della colonna Walter Alasia in via Ponte Nuovo, zona Crescenzago, intorno alle 7 di mattina.

Francesco ha diciannove anni, ha preso il nome 
del nonno e su di lui ha voluto girare un cortometraggio (significativamente intitolato "Per questo mi chiamo Francesco")*. 
Ciò che ha fatto suscita pensieri e riflessioni che, qui pubblicati, potranno essere condivisi, discussi, criticati da chi vorrà soffermarvisi.


Caro Francesco,
penso che tu abbia fatto una cosa bellissima rendendo onore alla memoria di tuo nonno.
Giovanni Battista Piranesi: Il ponte levatoio
Non c'è nulla di retorico in questo. Lo dice bene Paolo Foschini, che ci racconta del maresciallo Di Cataldo, responsabile del centro clinico del carcere, come un "uomo del dialogo" ante litteram perché  - ricorda attraverso le parole del direttore del DAP, Luigi Pagano - "impegnato con parecchi anni di anticipo su quel fronte volto al 'recupero dei detenuti' che avrebbe poi portato alla legge Gozzini".
Forse non lo sai, Francesco, ma la legge Gozzini è stata creata il 10 ottobre 1986, ben otto anni dopo che tuo nonno è stato ucciso, ed è la prima nata con l'intento di affermare la prevalenza della funzione rieducativa della pena, in concreta attuazione dell'art. 27 della nostra Carta Costituzionale, la prima che dispone una serie di misure alternative alla detenzione in carcere a favore di coloro che hanno commesso un reato.
Il tuo, però, Francesco, è molto di più che un omaggio. E' un bell'esempio di chi non alza le spalle alla storia (alla propria prima di tutto), ma anzi vuole conoscerla, va a cercarla e a suo modo la ripercorre. Ma è soprattutto un messaggio che può trasformare in bene quel male che è stato, rappresentando una straordinaria e imperdibile occasione di confronto su quegli anni terribili, in cui il dialogo fra generazioni non era per nulla scontato e tanto meno frequente.
Grazie dunque a te, Francesco, e grazie a Paolo Foschini che ci ha detto di te.
Emanuela Strina

Da Giuseppe Manfridi, autore teatrale 
Cara Emanuela,
confido che questa mia lettera in risposta alla tua possa valere a darti quanto mi fai l'onore di chiedermi.
Ho letto e ho visto. Dunque, ho scoperto e saputo.
Ritenevo di essere discretamente informato sull'argomento, ma ignoravo la cronaca. Ignoravo questa cronaca qui, la cronaca di questo delitto, la vicenda di questo martire. 
Filotesio Nicola - sec. XVI - Musa Calliope
Certo, nel '78 avrò visto i servizi in televisione e senz'altro li avrò commentati. Ero ragazzo, erano gli anni del fervore politico vissuto in una temperie collettiva che mai avrebbe potuto far immaginare l'estinzione delle ideologie. Tuttavia non ricordavo, poiché questo è il destino che spesso  tocca ai dati di cronaca: quello di fomentare una discussione, di trascendere in argomento e di essere poi espulsi, o annientati, come materiale combusto.
E invece è nella cronaca che stanno i destini veri delle persone, coi loro nomi e coi loro volti, con le loro tragedie, con le loro domestiche epicità, e chi ossequia la resurrezione di quei nomi e di quei volti compie il più vero degli atti poetici, laddove nell'etimo della parola 'poesia' è contenuto il concetto molto concreto del fare, del costruire, del compiere. Tutt'altro che un'astrazione.
Questo ragazzo è magnifico.
Magnifico quello che ha fatto, pur nella disperazione che il suo atto stesso mi comunica.
La domanda è: chi comprenderà il senso profondo della sua opera (nel senso di gesto, ancor più che di film)? Chi vorrà farne memoria non transeunte? Mi conforta pensare che la scrittura di ogni verso pretende l'eroismo di una simile disperazione, agita comunque e a tutela della razza umana, così incline a qualsiasi deriva.
Ti abbraccio,
Giuseppe


"L'istituzione della giornata della memoria delle vittime del terrorismo colma un vuoto di memoria storica e di attenzione umana e civile che molti di voi avevano dolorosamente avvertito". Giorgio Napolitano scrive una lettera aperta ai familiari delle vittime del terrorismo. E per farlo sceglie una data particolare, il 9 maggio, il giorno dell'assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. (la Repubblica.it  9 maggio 2007)


Da Andrea Del Corno, avvocato
Qualcuno ha detto:  «Il sangue della storia asciuga in fretta», inizia così un articolo di qualche tempo fa di Enzo Biagi sulla strage di Marzabotto.
Forse anche il sangue delle vittime del terrorismo si sta asciugando in fretta, soprattutto per le nuove generazioni che, è banale dirlo, si trovano, a 35 anni di distanza, in un mondo completamente cambiato.
Ecco perché mi colpisce l' "operazione memoria" che il giovane Francesco Di Cataldo, 19 anni, ha svolto con il cortometraggio dedicato alla figura di suo nonno, omonimo, ucciso il 20 aprile 1978 da un commando terroristico della colonna Walter Alasia, perché "colpevole" di essere il vicecomandante delle guardie penitenziarie e uomo del dialogo nel carcere di San Vittore a Milano.
Le vittime meritano la memoria, meritano il ricordo, meritano che il loro sacrificio sia il punto di partenza per non commettere più sbagli e per non ricadere negli stessi orrori. Ma, abbandonata la retorica, siamo certi che il paese tributi un giusto ricordo alle vittime di quel periodo?  Si parla abbastanza di quella stagione e dei moltissimi fatti che l'hanno insanguinata? oppure di quel periodo siamo capaci di ricordare soltanto i particolari del mondiale di calcio del 1982, svoltosi a soli 4 anni dalla morte del maresciallo Di Cataldo?
Dobbiamo essere consapevoli che la memoria, riattivata se occorre, è il miglior antidoto contro l'involuzione della società, è il luogo in cui si può parlare e capire da dove veniamo, per non dimenticare e per tessere un percorso condiviso della storia del paese.
Mentre scrivo queste poche righe, ho sulla scrivania la copia dell'articolo pubblicato sul Corriere che narra della bella storia del nipote di Di Cataldo. Mia figlia, 10 anni, legge il titolo e mi chiede "papà cos'è BR ?": ecco forse posso cominciare da qui.
Andrea Del Corno



Per scaricare l'articolo di Paolo Foschini clicca qui
*Per vedere il cortometraggio di Francesco Di Cataldo clicca qui
Per leggere la scheda dell'immagine di Calliope, la musa della poesia epica, clicca qui

mercoledì 6 novembre 2013

LEGGE BALDUZZI E RESPONSABILITÀ CIVILE

Una recente sentenza del Tribunale di Cremona (19 settembre 2013) offre l'occasione per fare il punto sulla responsabilità civile dei soggetti esercenti professioni sanitarie alla luce delle novità introdotte con la c.d. Legge Balduzzi (legge n. 189 del 2012).
La causa decisa dal Tribunale cremonese era stata introdotta da un paziente che assumeva di essere stato danneggiato dall'operato dei medici i quali,  nell'ottobre 2004, durante l'intervento di nefrotomia percutanea sinistra, avrebbero cagionato lesioni iatrogene che sfociavano in peritonite. Inviato d'urgenza all'Ospedale Civile di Cremona, veniva diagnosticata un'insufficienza renale acuta e fibrosi retroperitoneale e veniva sottoposto a laparatomia mediana. A seguito di ciò veniva prescritto riposo per 50 giorni, ma il paziente riusciva a riprendere l'attività soltanto a gennaio 2005. Chiedeva dunque il risarcimento dei danni non patrimoniali e di quelli patrimoniali; questi ultimi derivanti dal fatto che egli, titolare di un'officina meccanica, con un solo dipendente, per lungo periodo non si era potuto dedicare all'attività di riparazione di auto d'epoca, cui egli solo provvedeva.
La sentenza accoglie la domanda con una motivazione molto ampia e corredata da puntuali rinvii giurisprudenziali.
Fra tutte le questioni  implicate dal thema decidendum, scegliamo di puntare l'attenzione su quella che trae origine dall'introduzione della Legge Balduzzi e, in particolare, da quanto disposto dall'articolo 3; norma che - come noto - ha innovato in materia di responsabilità dei soggetti esercenti professioni sanitarie, stabilendo che costoro, in caso si siano attenuti alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non rispondono penalmente per colpa lieve.  
Raffaele l'arcangelo della guarigione
La nuova legge ha infatti operato una depenalizzazione condizionata a come si è svolta in concreto l'azione del sanitario, senza tuttavia escludere la responsabilità di quest'ultimo sul piano civilistico; in tali casi, infatti , rimane fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile (vale a dire la cosiddetta responsabilità extracontrattuale o altrimenti detta aquiliana) e il giudice, "anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo  periodo", cioè se l'esercente la professione sanitaria si sia o meno attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
Secondo il Giudice, il citato art. 3 si  ispira al principio di sussidiarietà penale. Infatti, dopo aver affermato che in ambito penale il sanitario che abbia rispettato le linee guida accreditate non risponde per colpa lieve "(ossia, in ambito penale il bisogno e la meritevolezza di pena scattano solo in caso di dolo o colpa grave)", la norma si preoccupa di chiarire che, in tale caso, l'assenza di responsabilità penale non esclude la responsabilità civile e il risarcimento del danno.
"Rimane ferma dunque – in linea di massima – la cornice della responsabilità civile del sanitario disegnata dalla giurisprudenza, ancorata per le operazioni di routine, al mancato raggiungimento del risultato, negli altri casi alla verifica della sussistenza del dolo o della colpa grave."
Nella sentenza è illustrato infatti che la giurisprudenza  è pervenuta a tale conclusione "all'esito di un percorso ermeneutico volto a scrutinare la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, evidenziando come essa si fondi sulla dominabilità o meno del risultato stesso, nel senso che, mentre nel primo caso esso dipenderebbe da una molteplicità di concause, concorrenti con l'azione del debitore, nel secondo dipenderebbe quasi interamente dall'attività di costui." . 
Si ritiene così che nell'attività medica, retta da studi e leggi scientifiche, il risultato sia, se non dominabile, quanto meno governabile, attraverso il rispetto dello standard curativo (linee guida), salve le specificità del caso concreto. Ciò quanto meno negli interventi c.d. di routine, da intendersi – precisa il Giudice – non già come le operazioni di non difficile esecuzione, "concetto del tutto indeterminato e arbitrario", bensì come gli interventi attinenti a settori nei quali la scienza medica abbia già enucleato uno standard curativo universalmente accreditato.
Se non è disponibile uno standard curativo, si è al di fuori delle operazioni c.d. di routine. E solo nel primo caso il mancato raggiungimento del risultato fa insorgere una presunzione semplice di inadempimento, con la conseguenza che spetta al sanitario fornire la prova liberatoria, ossia che l'insuccesso dell'intervento è dipeso da caso fortuito o forza maggiore. Nel caso fortuito poi, possono rientrare le complicanze proprie e inevitabili dell'intervento medesimo, mentre non vi rientrano quelle atipiche e/o improprie, ossia quelle estranee all'intervento o inadeguate o sproporzionate, o note, ma evitabili. E in caso di dubbio, il rischio delle (con)cause ignote resta a carico del sanitario.
Dopo aver ricostruito, il concetto di standard curativo o linee guida*, il Giudice mette in luce come l'art. 3 della legge Balduzzi, il cui disposto si inserisce coerentemente in tale contesto, "va  ad impattare proprio /…/ sul rischio delle concause ignote". In particolare, al verificarsi di una complicanza, malgrado il rispetto delle linee guida, dovrà essere il danneggiato a provare che l'esito infausto dell'intervento è dipeso dal fatto che il sanitario, in presenza di determinate specificità del caso concreto, avrebbe dovuto discostarsi dalle linee guida e operare diversamente, oltre a fornire la prova che tale diversa condotta sarebbe stata salvifica nella situazione di specie.
La norma in esame impone di tener conto delle rispetto delle linee guida nella determinazione della sussistenza degli estremi per il risarcimento del danno, mentre essa non si occupa del caso in cui non siano osservate, per il quale – osserva il Giudice – "parrebbe data per implicita la responsabilità (con un evidente arretramento di tutela per il sanitario, in quanto le specificità del caso concreto possono a volte imporre l'assunzione di una condotta differente – salvo ritenere che la norma non si occupi di questo caso).".
L'art. 3 disciplina invece l'ipotesi in cui, malgrado il rispetto dello standard curativo, l'intervento non abbia avuto successo, o si sia verificato un esito infausto o inatteso. In tali casi, dovendo il giudice tener conto del rispetto delle linee guida, il sanitario dovrà provare di aver rispettato lo standard curativo  "della sottoclasse nella quale può essere fatto rientrare il paziente" e potrà essere chiamato a rispondere penalmente "solo laddove risulti in maniera patente che si sarebbe dovuta tenere una condotta ulteriore o diversa, una sorta di sindacato esterno, mentre in ambito civile l'indagine potrà spingersi  più all'interno dell'uso che il sanitario abbia fatto della propria discrezionalità.".
Il Giudice ritiene che "proprio la discrezionalità sembra essere l'oggetto finale e ultimo delle attenzioni del Decreto Balduzzi: si vuole che il medico si attenga alle linee guida /…/ ma non si vuole negare il carattere eminentemente intellettuale della professione sanitaria, in relazione al fatto che poi, al di là delle classi, ogni individuo è diverso dall'altro", ed è rimesso appunto al sanitario "valutare le specificità del caso concreto o le variabili che possono presentarsi in corso d'opera e adottare gli accorgimenti di volta in volta più appropriati, muovendosi negli spazi lasciati liberi dalle linee guida e/o anche al di fuori di esse, se ciò sia consigliabile.".
La discrezionalità, tuttavia, potrà essere sanzionata solo se sia fornita la prova rigorosa che la condotta sarebbe stata salvifica ed era concretamente esigibile. Motivo per cui, nelle operazioni non routinarie, il sanitario è chiamato a rispondere solo per dolo o colpa grave, giacché non essendovi  linee guida, tutto è rimesso alla sua discrezionalità, la quale può, appunto, essere sanzionata solo quando appaia manifestamente mal spesa.
Prima di decidere il caso sottoposto al suo vaglio, il Giudice si chiede infine se tale "nuova impostazione del problema della responsabilità medica possa applicarsi anche ai fatti pregressi e ai processi in corso" , affermando che la risposta non può che essere negativa per la naturale irretroattività della legge**.
  
*Sul concetto di standard curativo o linee guida, si rinvia, da un lato,  all'excursus contenuto nella pronuncia in commento e, dall'altro, all'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della questione di costituzionalità dell'art. 3 scaricabile cliccando il link in calce al post del 1° ottobre.
** In ambito penale, l'impossibilità di applicare retroattivamente le nuove disposizioni della Legge Balduzzi sono state affrontate dalla sentenza Cantore scaricabile cliccando il link in calce al post del 1° ottobre.

Emanuela Strina e Andrea Del Corno, avvocati del Foro di Milano


Per scaricare:
la Legge Balduzzi clicca qui
la sentenza del Tribunale di Cremona clicca qui

venerdì 1 novembre 2013

MALTRATTAMENTI IN CARCERE

La vicenda evoca uno scenario odioso, che vorremmo fosse collocato al di fuori dei confini nazionali. Ma visto che non è così e che non vi sono zone franche dal male, in un momento in cui il tema del sovraffollamento carcerario va per la maggiore, è necessario che la storia sottesa alla pronuncia del 21 maggio 2012 n. 30780 della Corte di Cassazione - di cui stiamo per dar conto - esca dalle pagine delle riviste specialistiche e si renda conoscibile a un contesto più ampio.

Due agenti di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Asti vengono tratti a giudizio perché in concorso fra loro, abusando dei poteri inerenti alla loro funzione, maltrattavano un detenuto ristretto in regime di detenzione carceraria, affidato alla loro vigilanza e custodia, sottoponendolo a un tormentoso e vessatorio regime di vita all'interno della struttura carceraria.

Tela di ragno
Secondo quanto si apprende dalla sentenza, i due agenti spogliavano completamente il detenuto e lo rinchiudevano in una cella senza vetri alle finestre (chiuse soltanto dopo circa un mese con cellophane), priva di materasso per il letto, di lavandino e di sedie o sgabelli, ove veniva lasciato (i primi giorni completamente nudo) per circa due mesi, razionandogli il cibo e fornendogli unicamente pane e acqua;  durante tale periodo  picchiavano il detenuto ripetutamente ed anche più volte al giorno, con calci pugni e schiaffi per tutto il corpo, fino a cagionargli lesioni personali (tra cui la frattura dell'ottava costola sinistra, ecchimosi diffuse in sede toracico-addominale di sinistra) da cui derivò una malattia giudicata guaribile in 20 giorni; in un'occasione uno dei due agenti strappò con le mani il "codino" che il detenuto si era fatto ai capelli. Analoga contestazione veniva mossa allo stesso agente (in concorso con altri) con riferimento ad altro detenuto.

In primo grado, il Tribunale di Asti in composizione monocratica dichiarava non doversi procedere nei confronti dei due imputati per estinzione del delitto di abuso di autorità contro arrestati e detenuti (art. 608 c.p.), così riqualificato il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi  (art. 572 c.p.) contestato nel capo di imputazione, a seguito del decorso  del termine per prescrizione.

All'esito di un' approfondita istruttoria, il Tribunale riteneva provato "al di là di ogni ragionevole dubbio" che: 
i) nel carcere di Asti era stata instaurata una prassi di maltrattamenti dei detenuti più "problematici";
ii) due detenuti subirono non solo singole vessazioni, ma una vera e propria tortura, durata per più giorni e posta in essere in modo scientifico e sistematico;
iii) i due agenti parteciparono con certezza a tutte o quasi tutte le vessazioni (fisiche, psicologiche e materiali).

Quanto alla qualificazione giuridica, il Tribunale osservava che i fatti avrebbero potuto essere agevolmente qualificati come tortura, se l'Italia non avesse omesso di dare attuazione nel nostro Paese alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, pur ratificata con la legge 3 novembre 1988. Poiché tuttavia tale fattispecie criminosa non è contemplata nel nostro ordinamento, il Tribunale escludeva che le condotte  dianzi descritte potessero integrare il reato di cui all'art. 572 c.p., ritenendo che le stesse dovessero essere ricondotte all'ipotesi di cui all'art. 608 c.p..

La pubblica accusa ha impugnato la sentenza con ricorso immediato per cassazione.
La Suprema Corte ha concordato sulla "penetrante critica svolta dal Pubblico Ministero alla conclusione cui è pervenuto il Tribunale in ordine alla qualificazione del fatto", riprendendo quanto in più occasioni affermato nella propria giurisprudenza, e cioè che anche le pratiche persecutorie realizzate fuori dal ristretto ambito familiare possono integrare il delitto di maltrattamenti all'interno di comunità in cui il rapporto tra agente e parte offesa assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti , dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall'esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica.

Con una pronuncia senza precedenti, la Suprema Corte ha riconosciuto così che il rapporto che si instaura fra agenti di polizia penitenziaria e detenuti all'interno di un carcere abbia natura para-familiare.  Prima di questa, infatti,  la Cassazione ha ritenuto di individuare gli elementi di tipicità della "famiglia" cui si riferisce il disposto dell'art. 572 c.p., oltreché nella c.d. famiglia di fatto, nel posto di lavoro (vedi post del 20 maggio 2013), nelle strutture per anziani e in un asilo nido.

La Cassazione ha inoltre affermato che il Tribunale avesse errato nel considerare che i comportamenti descritti nel capo di imputazione integrassero "esattamente quelli descritti dall'art. 608 c.p.", concludendo per l'integrazione di detto reato, ritenendo che tale norma si porrebbe in rapporto di specialità rispetto all'art. 572 c.p.c.. 

Secondo la Suprema Corte infatti l'art. 608 c.p. non è norma speciale rispetto alla fattispecie di maltrattamenti, poiché il reato di abuso di autorità contro arrestati e detenuti è di carattere istantaneo e speciale rispetto a quello, parimenti istantaneo, di abuso di mezzi di correzione e disciplina (art. 571 c.p.), ma non rispetto al reato di maltrattamenti previsto dall'art. 572 c.p., che "sanziona comportamenti abituali, caratterizzati da una serie indeterminata di atti di vessazione e umiliazione che manifestano l'esistenza di una direzione di volontà di cui i singoli episodi (d'ingiurie, percosse, lesioni etc), da valutare unitariamente, costituiscono l'espressione e in cui rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa la vita della parte offesa".

I delitti di cui agli artt. 572 e 608 c.p. (come quello di lesioni personali gravi)  possono pertanto concorrere nei casi di accertata protrazione delle condotte per un periodo di tempo significativo (come accaduto ai danni dei due detenuti del caso in esame, ristretti in isolamento per più giorni) integrando a tutti gli effetti i connotati dell'abitualità che caratterizza il reato di maltrattamenti.

Ancora una volta assistiamo alla versatilità dell' art. 572 c.p.,  norma che potremmo definire ''Fregoli'' in omaggio allo scomparso  comico trasformista: in presenza di particolari condizioni e circostanze che si possono configurare solo dopo un attento esame della relazione e della modalità di frequentazione tra le parti, ovvero il c.d. rapporto di natura parafamiliare, si pone come ago della bilancia, con inevitabile ''effetto domino'' sulla qualificazione giuridica del fatto.

Così la fattispecie può mutare e, da una iniziale accusa che richiama una certa ipotesi di reato, la decisione del Giudicante può pervenire ad altra qualificazione: mobbing che diviene ingiuria e minaccia  e viceversa...

La decisione degli Ermellini che abbiamo esaminato è certamente importante, perché allarga il campo di azione della norma (art. 572 c.p.); ma se da un lato il diritto segna un punto a suo favore, dall'altro la fattispecie che abbiamo descritto suona come un brutto segnale d'allarme.

La situazione carceraria e ormai diventata molto pesante e tutti avvertono la necessità di una radicale riforma, persino il Capo dello Stato ha invitato le forze politiche a risolvere rapidamente la questione, ricorrendo, se necessario, persino all'amnistia ed all'indulto (soluzioni alquanto opinabili sull'effettiva funzione deflattiva del sovraffollamento delle carceri).

Bisogna risolvere la situazione al più presto per evitare il moltiplicarsi di episodi come quello per il quale è stata emessa la sentenza che abbiamo commentato. Ma soprattutto, nell'immediata attualità occorre scongiurare il pericolo che si giunga ad episodi da Far West dove la giustizia privata si possa sostituire a quella del diritto, innescando una spirale di violenza senza ritorno, che nel nostro ordinamento giuridico non può, e non deve, avere legittimazione alcuna.

Emanuela Strina e Francesco Daddi, avvocati in Milano
Foto di Gianna Tarantino e titolo di Luigi Turinese


Per scaricare:
la sentenza della Cassazione clicca qui
la convenzione ONU sulla tortura clicca qui