venerdì 12 dicembre 2014

LA PRIMA DENTRO: il racconto di Giovanna Di Rosa

Giovanna Di Rosa è magistrato di sorveglianza presso il tribunale di Milano, riprenderà a giorni il suo ruolo dopo la consiliatura al Consiglio Superiore della Magistratura, anche quest'anno è stata tra coloro che hanno assistito alla prima della Scala a San Vittore. Ecco il suo racconto.


Anche quest'anno abbiamo assistito alla prima della Scala dalla rotonda di San Vittore.
Come raccontare a parole ciò che è emozione?
Ci provo così.

Accanto ai detenuti (140 uomini, oltre alle donne della sezione femminile) siedono magistrati, rappresentanti delle istituzioni, volontari, importanti protagonisti del mondo della medicina, della cultura, dell'editoria, giornalisti e autorità varie, in tutto circa 300.

Si inizia con l'inno di Mameli. Detenuti e non, ci siamo alzati in piedi in segno di rispetto e, al termine, applaudiamo anche se i musicisti sono sul telo. Continueremo così: applausi alla situazione, ai personaggi, al nostro essere insieme.

Inizia l'opera.
Il Fidelio, si sa, è particolare: ambientato in carcere, parla di amore ma anche di sopraffazione senza regole nel desiderio della libertà, alla fine riconquistata spezzando la catena che imprigionava ingiustamente l'innocente.
Penso: ma sullo schermo c'è uno specchio e il carcere si guarda, diventa spettacolo...

Eppure il vero spettacolo siamo noi: chi è stato condannato, chi in carcere lavora, e chi per la prima volta è qui, dopo aver varcato la soglia di non si sa quale mondo sconosciuto e temuto. Seduti accanto, senza barriere e timori.
Una persona mi racconta di aver sentito una forte emozione, prima di entrare.

Ecco allora la forza dell'iniziativa, a che serve aprire San Vittore a serate come questa: il fuori va a cercare il dentro e si accorge che contiene persone: silenziose, anche nei passaggi più critici dell'opera, nonostante i sottotitoli dal tedesco traducano parole pesanti come macigni, spietate nella loro sinteticità, che accomunano le parole celle e orrore.

E i detenuti zitti, come gli altri, travolti dalla musica e dalla storia: l'autorità della storia è infatti corrotta e malvagia e le autorità presenti scrutano i volti degli spettatori, ma restano impassibili, nessuno ammicca né contesta.

Alla fine, come abbiamo letto sui giornali, applausi convinti solo ai buoni, silenzio per i cattivi, come a misurare, con la forza dell'applauso, il gradimento del personaggio, in una sintesi che appare semplice ma che in realtà esprime forza e partecipazione.

Non penso possibile un maggior grado di consapevolezza anche della responsabilità che gli operatori si sono assunti in questa scommessa e i detenuti sono stati pienamente all'altezza della promessa fatta.

Già, perché tenere i detenuti fuori dai bracci e non dietro le sbarre, seduti nell'improvvisata platea e a cancelli aperti si fa dall'anno scorso ma non nelle altre carceri, né è una cosa scontata. E' una cosa seria, una prova che conferma quanto sia giusta la nuova strada della condivisione nella vigilanza dinamica, senza cioè il controllo a vista.
Vince insomma la ragione e l'impegno dei bravi operatori che hanno spiegato , nel tempo come e perché sia bene seguire questa strada.


Nell'intervallo, caffè e bevande con fettine di panettone fatto nel carcere di Padova.
L'anno scorso ho visto, a Padova, come fanno questi buonissimi panettoni, con una lievitazione lunghissima, in forni grandi e con alta professionalità. E ricordo il profumo di panettone che all'improvviso si era diffuso in quel carcere e che sapeva di speranza.
Tutti, sempre detenuti e non, sciamano nel corridoio antistante uno dei bracci attraverso i cancelli aperti per assaggiare e commentare.
I detenuti sono attenti, avvicinano più facilmente i giudici che conoscono e con i quali sorseggiano il caffè.
Si tentano commenti sull'opera, uno di loro mi dice che quando esce all'aria deve coprirsi gli occhi con le mani, come nell'opera, mi  domandano quando torno in servizio e rispondo: questione di giorni.

L'opera riprende e poi si conclude: il malvagio smascherato, il prigioniero ingiustamente trattenuto viene liberato dalla forza della verità, dall'istituzione onesta e dall'amore della compagna.

Avevano però comunicato un orario diverso per la conclusione dell'opera. Questo comporta un ritardo nella preparazione del risotto nelle cucine del femminile.

Mi chiamano allora per fare, al centro della rotonda per il discorso finale e dico: abbiamo visto il bene che vince sempre sul male, la giustizia trionfa, non c'è niente da fare. E noi che abbiamo trascorso insieme quelle due ore, un fuori venuto per conoscere, comprendere, collaborare e un dentro che si è aperto e lasciato guardare, in una calda aspettativa anche natalizia, siamo il vero spettacolo.
Saluto e arriva il risotto, ovviamente alla milanese.

All'uscita gli omaggi della cooperativa Alice, la sartoria delle detenute: una borsina di tela con i biscotti fatti dalle detenute mamme dell'ICAM.

Ecco la nostra serata della prima alla Scala.
La scala dei valori.

Giovanna Di Rosa


giovedì 11 dicembre 2014

GIUSTIZIA: intervista a Claudio Castelli

Parliamo di GIUSTIZIA con Claudio Castelli, magistrato, Presidente aggiunto Ufficio GIP del Tribunale di Milano in precedenza capo dipartimento organizzazione giudiziaria presso il Ministero della Giustizia.


La giustizia è descritta come sempre in affanno sia per l'arretrato sia per il volume delle cause pendenti. E' solo un problema di organizzazione ? investe in egual modo il settore civile e penale, o solo uno dei due ? e se investe entrambi i settori, il problema ha caratteristiche simili per l'uno e l'altro campo?

In parte è un problema di organizzazione, in parte è un problema di eccesso di domanda, specie nel settore civile. Basti vedere i dati della CEPEJ, la Commissione Europea per l'efficienza della giustizia, secondo la quale su 100.000 abitanti, l'Italia è il terzo paese in Europa per livello della domanda. Il che vuol dire che la domanda è abnorme, in gran parte gonfiata perché conseguenza anche di problemi sociali.

Mentre sul versante penale?

Sul versante penale, l'Italia sconta sicuramente l'esistenza di un numero di reati enorme, frutto delle scelte operate per lungo tempo dal legislatore, che hanno condotto a moltiplicare indiscriminatamente le ipotesi di reato; su questo si innesta il noto problema dell'obbligatorietà dell'azione penale.

Quindi in sintesi, troppe fattispecie di reato?

Esatto. Se si va a vedere cosa è avvenuto nel campo penale, a partire dall'affermazione dello Stato sociale, all'inizio degli anni '60 - '70, si è avuto la penalizzazione di qualsiasi comportamento. Alla introduzione di nuovi diritti è corrisposta la scelta di presidiarli penalmente, in quanto soluzione più semplice e più spendibile a livello pubblicitario.

Il ricorso alla sanzione penale non è più stato utilizzato, quindi, come estrema ratio, vale a dire solo quando ogni altra soluzione sarebbe inefficace?

È così, e questo ha provocato in buona parte l'enorme crescita dei processi. Teniamo conto del resto che se esaminiamo oggi la tipologia dei reati per cui si procede, a parte il grosso numero di reati contro il patrimonio, troviamo, da una parte, quelli connessi all' immigrazione  - anche se ora un po' meno - e, dall'altra, quelli che riguardano la droga. C'è stata infatti una rilevante penalizzazione in materia di droga. Queste sono state le scelte del legislatore.

Tornando invece alla malattia del sistema civile, quale può essere la cura o una prima cura?

La prima questione rimane la necessità di intervenire sulla domanda. La seconda, è certamente l'organizzazione, che conta molto. Come dimostra il fatto che da tribunale a tribunale sistema e tempi sono completamente diversi. Questo dipende certamente da  fattori diversi: il contesto territoriale, le risorse disponibili. Però è noto, ed è pacifico, che se esaminiamo due tribunali in contesti territoriali simili, se non proprio contigui, con risorse più o meno pari, spesso troviamo  funzionamenti radicalmente diversi. Questo vuol dire che sono diversamente organizzati e rappresenta l'importanza del dato organizzativo.

Ma non è il giudice il manager della sua sezione, del suo ufficio ? forse andrebbe chiesto loro come organizzano gli uffici o perché ci sono queste disparità.

Più che dire che il giudice è anche manager, va detto che qualsiasi giudice, ancora più se il ruolo è di coordinamento o di organizzazione, come quello del presidente di sezione o del presidente del tribunale, ha un onere, che fa parte del suo ruolo, di autorganizzazione.
Il problema italiano centrale resta comunque quello dell'arretrato, non delle cause correnti.
 

Di arretrato si parla sempre, ma concretamente quali sono i numeri?

I dati su questo sono molto chiari, e cioè, in primo luogo, che da tre/quattro anni, forse anche di più, i giudici eliminano normalmente più di quello che sopravviene.
Si parla di un tasso di smaltimento superiore a cento. Il che vuol dire che il problema non è il rapporto fra cause sopravvenute ed esaurite, ma di quelle pendenti da anni che derivano da fattori gestionali. E questo è il primo elemento.
Il secondo elemento è che ci sono situazioni estremamente differenziate. A Milano  la realtà è buona. Se prendiamo i dati a Milano, il tempo di esaurimento dei processi penali è oggi di circa 7 mesi da quando viene depositata la richiesta di rinvio a giudizio, fino alla sentenza o al decreto. Abbiamo un tempo di 2 - 3 mesi per la fissazione dell'udienza e il tempo medio del dibattimento è sui 150 giorni: sono tempi estremamente contenuti.
Nel settore civile, dove la situazione è peggiore, nonostante tutto, il tempo medio è di due anni e mezzo.

A livello nazionale com'è la situazione?

A livello nazionale la situazione è molto peggio. Se si va a vedere l'ultimo bilancio sociale del tribunale di Milano, si vedrà che, rispetto al civile, siamo a 100 giorni  dalla media europea. Ma l'Italia ha rapporti molto più elevati.
  
Sembrerebbe una situazione ingestibile

Va detta una cosa, quando si parla di arretrato, in Italia si fa un'operazione in larga parte ideologica e scorretta sotto più profili. Perché per dire cos'è l'arretrato debbo innanzitutto definirlo e se si pensa che l'arretrato sia costituito dalla pendenza, si sbaglia: pendenza è anche il contenzioso iscritto ieri e non può sicuramente essere definito come arretrato. Invece in Italia parliamo di arretrato, si intendono normalmente tutte le cause pendenti indipendentemente dall'anno di iscrizione
Si dice, abbiamo un debito giudiziario di 9 milioni di procedimenti: non vuol dire niente. Dipende da quando sono pendenti. Recentemente il Ministero della Giustizia in un'interessantissima analisi dei processi pendenti nel campo civile ha definito come arretrato i processi pendenti da oltre tre anni. Io definirei come arretrato i processi che hanno almeno due anni di anzianità. Questo perché la corte europea dice che un processo deve durare tre anni e per evitare condanne in sede europea dobbiamo avere il tempo, un anno, per definirlo.
Dunque, a livello nazionale sino ai dati pubblicati nel novembre 2014 dal Ministero della Giustizia nessuno sapeva quale fosse  l'arretrato, comunque qualificato, perché nessuno aveva mai targato i processi. Che è invece una delle cose che ha fatto il presidente Barbuto a Torino, nell'ambito del suo progetto a Strasburgo, e che poi abbiamo cominciato a fare anche a Milano, è di targare i processi.
Mi spiego: si classificano i processi secondo l'anno di iscrizione, si contano per sapere quanti processi si hanno per ciascun anno di nascita e così si sa anche entro quando si devono chiudere.
A Milano teniamo sotto costante controllo tutti questi dati perché le statistiche sono indispensabili per amministrare.

In ambito penale è da tener conto che si calcola da quando il processo è arrivato al Tribunale, ovvero all'Ufficio GIP con richiesta di definizione, o alla sezione dibattimentale.
Negli ultimi anni il tribunale Milano ha sempre avuto un indice di smaltimento più o meno superiore al  100%.

Lo snodo quindi è come dire il fattore organizzazione?

Il problema organizzativo si risolve a cominciare dalle scelte dell'ufficio a livello generale;
le capacità del singolo giudice vengono in un secondo momento. La priorità deve essere data alla gestione e a una strategia a livello centrale.
Intendo dire che il primo elemento è la conoscenza, in primo luogo da parte del presidente del tribunale: deve sapere, per così dire, che cosa c'è in magazzino. Dopodiché bisogna conoscere i flussi, e quindi creare una politica per affrontere i flussi. Perché se no si finisce in emergenza.
Tutto questo implica compiere scelte sui canali processuali, sulle specializzazioni e avere un livello di monitoraggio costante di quello che succede.

Il che però comporta avere mezzi e strumenti, per fare questo monitoraggio?

Si certo, ma i registri ce li hanno tutti. Il ministero prevede che società di assistenza informatica estraggano i dati dai registri. Perciò oggi possiamo dire che la disponibilità dei dati necessari ad agire al meglio è diffusa. È chiaro che  occorre avere le persone che si dedicano a questo.
Faccio un esempio sui flussi nel campo penale. Una scelta che si è fatta in questo ufficio è di puntare molto sui decreti penali. Il che implica tener sotto controllo il tasso di opposizioni. In questo momento si registra un peggioramento, ma il tasso medio è del 34%.

I reati fiscali si prestano a questo tipo di scelta, perché si può procedere quasi sempre per decreto penale.

Sì, ad esempio. Milano, nel complesso emette 10.000 decreti penali all'anno. Ma se si va a vedere in altri tribunali, come Roma per esempio, non è così, nel senso che non è questa la scelta.

E' rimasto però un tema aperto, quello dell'obbligatorietà dell'azione penale, va eliminata, mantenuta o superata ?

L'obbligatorietà, specie in un paese come l'Italia, è inevitabile che debba rimanere ed essere preservata. Perché esiste il rischio di disparità di trattamento. Il problema è, ribadisco, che bisognerebbe concepire davvero l'intervento penale come extrema ratio.

Occorrerebbe quindi un serio intervento sul piano della depenalizzazione.

Certamente, faccio un esempio semplicissimo proprio in materia di reati tributari. L'idea di fondo è che più sanziono, più combatto l'evasione. Non è così, è una stupidaggine. L'idea che ho, personalmente, è che si dovrebbe procedere in un altro modo, anche elevando la soglia di punibilità, ma incoraggiando il pagamento di quanto dovuto mettendosi in regola. Sostanzialmente  chi paga, anche in ritardo, comprese sanzioni e interessi, non deve essere sottoposto nemmeno a procedimento penale. Bisognerebbe cioè incoraggiare comportamenti diciamo fattivi e riparatori.

Non pare che si vada in questa direzione in effetti

Infatti l'idea che vige è un'altra: quando il governo Monti ha voluto sanzionare di più ha vietato il patteggiamento per alcuni reati tributari, a meno che non  fosse intervenuto  il pagamento. Ma così non si incentiva il pagamento e si intasano i tribunali di procedimenti: perché se uno non può pagare, non può chiedere il patteggiamento e deve andare a giudizio.
In realtà, dovremmo toglierci dall'illusione che ci sia il toccasana, la bacchetta magica che tutto risolve. Su ogni canale, su ogni tipologia di reato, come su ogni tipologia di procedimenti civili, bisogna trovare il rimedio adatto. Per far l'esempio sul civile, uno dei problemi è che in realtà ci sono dei grandi temi che sarebbe necessario affrontare, a cominciare dal contenzioso previdenziale (in alcuni centri del nostro Paese ci sono più cause che abitanti; è famoso il caso di Foggia in cui c'erano più cause previdenziali che abitanti) e dalle esecuzioni civili che richiedono un forte ripensamento.
Poi abbiamo il problema del numero di opposizioni alle sanzioni amministrative di competenza del giudice di pace e la questione del contenzioso nelle corti di appello.
Se riuscissimo ad intervenire su questi aspetti in modo mirato, potremmo avere dei benefici immediati.

Quanto aiuta il legislatore in questa situazione ?

La sensazione sempre più diffusa è che il legislatore sia lontano; che certi interventi siano dovuti dalla necessità di fare leggi manifesto, che servono a tacitare la pubblica opinione. Senza capire che spesso, pur avendo ottime intenzioni, si rischia di adottare provvedimenti che vanno in direzioni radicalmente diverse, perché non si conoscono i problemi tecnici sottesi a determinate soluzioni.

Qualche esempio?

La questione "messa alla prova" in ambito penale è un esempio.

È stata previsto questo nuovo istituto in ambito penale che prevede di poter sospendere il processo con messa alla prova e se questa ha esito positivo il reato viene dichiarato estinto senza celebrazione del processo

Questa sarebbe un'ottima legge, ma il modo con cui è stata impostata fa si che probabilmente avrà un'applicazione molto limitata, e questo è un peccato.
Avevamo fatto il calcolo, partendo dai lavori di pubblica utilità, già previsti per le guide in stato d'ebbrezza. Posso dire il numero: si contano 1559 sentenze di condanna per lavori di pubblica utilità dal 2010, ma in realtà iniziano dal 2012 perché nei primi due anni si limitano a qualche decina.
Avevamo calcolato che se fosse applicata seriamente, la messa in prova, si potevano gestire 5000 persone all'anno. Ma non ci si è posti il problema di aumentare gli organici dell' UEPE o di dare struttura a questo ufficio, quindi, come al solito, lo strumento c'è ma non si è pensato a quello che serve per la sua attuazione concreta.

Dal suo curriculum risulta che è responsabile dell'Ufficio Innovazione, cosa può dirci sull'innovazione del processo?

L'Ufficio Innovazione è stato creato per la prima volta a Milano. E all'epoca la scelta è stata di qualificare l'Ufficio Innovazione come un reparto amministrativo composto esclusivamente da personale amministrativo. Io sono stato nominato come referente dei processi d'innovazione quindi non faccio propriamente parte dell'Ufficio Innovazione, anche se lo dirigo.

Quale potrebbe essere la strada per una vera innovazione, per un miglioramento dell'efficienza?

Tutto, mi verrebbe da dire. Quello che noi riteniamo sia innovazione è tutto quello che cambia sostanzialmente la realtà degli uffici: dai lavori di pubblica utilità al passaggio al telematico, alla gestione centralizzata di molti progetti che abbiamo cercato di realizzare qui a Milano.
Un capitolo molto ampio è la digitalizzazione, in particolare per quanto riguarda il processo civile.
Un altro capitolo altrettanto ampio, e oggi forse ancora più interessante, è quello dell'accoglienza del pubblico e della ristrutturazione radicale dei diversi livelli e tipi di accoglienza, sia nei confronti del pubblico, sia nei confronti dell'avvocatura.
A Milano abbiamo creato un sistema multilivello con uffici (l'URP) rivolti al cittadino, i punti informativi che interessano il settore civile e penale dedicati agli avvocati, e le cancellerie. Tre livelli, dunque, che si interconnettono anche con i diversi livelli del sito web e con i totem interattivi. Questa è una delle innovazioni più rilevanti che è stata fatta, cambiando radicalmente la logica di base dell'accoglienza.

E' una battuta, ma può essere anche una metafora: spesso capita di trovare qualcuno che si è perso in Tribunale

Quando nel 2008 sono tornato a Milano dopo l'esperienza ministeriale, la prima cosa su cui ho riflettuto è stata proprio la mancanza totale di una politica dell'accoglienza. Bisogna pensare che, secondo i calcoli che abbiamo fatto col Politecnico entrano ogni giorno in questo palazzo 5.000 persone, che non sanno dove andare e rispetto alle quali è mancata la previsione di una politica, anche minima, di informazione. E' necessario avere una politica che permetta l'entrata del minor numero di persone possibile, fornendo più servizi online e per quelle che comunque entrano, predisponendo un servizio che eroghi le prestazioni richieste e che consentano un rapido deflusso. A Milano siamo partiti il 14 luglio con l'URP e abbiamo sinora dei riscontri molto positivi.

Questa è innovazione senza dubbio, ma l'URP riguarda tutti i campi?

Siamo partiti su due campi, anche se adesso stiamo estendendoli: volontaria giurisdizione e tutele da un lato, e carichi pendenti e certificati penali, dall'altro. Ora ha aperto anche la Corte d'Appello, sia come informazione sia come certificati. A breve aprirà anche l'ultimo sportello del Tribunale che riguarda tutti i certificati sulle esecuzioni e le informazioni sul penale.
  
Che risposte avete da questa iniziativa ?

Abbiamo il calcolo di quante persone arrivano e di quanto tempo ci si mette a soddisfare le richieste. Questo primo periodo, escludendo agosto in cui c'è stato un afflusso più limitato, abbiamo riscontrato un afflusso tra le 800 e le 1.200 persone al giorno. E con il tempo medio di rilascio di un servizio, un po' superiore per la procura per quanto riguarda i certificati, più o meno di 20 minuti. Il tribunale ha tempi più contenuti, perché parliamo di 5-10 minuti. Tempi abbastanza ragionevoli. Un dato che mi ha positivamente stupito è che il personale adibito allo sportello sia soddisfatto nonostante che il contatto col pubblico sia un'attività pesante.

Sappiamo che la lentezza della giustizia è un freno agli investimenti, allora viene da chiedere come funzione il tribunale delle imprese?

Funziona bene. Teniamo conto che ha dei numeri abbastanza contenuti. Ha un contenzioso ricco, difficile ed estremamente specializzato. Il tribunale delle imprese funziona bene e ha dei buoni tempi di risoluzione delle controversie. Il problema è che questo risponde ad una saggia scelta di specializzazione.

Finora non abbiamo parlato di risorse, come siamo messi?

Quanto a risorse, siamo messi male. Il problema drammatico è il personale giudiziario: abbiamo una scopertura degli organici che sta arrivando al 30%. E questo è un grosso problema perché non si vede il futuro a fronte dei continui pensionamenti e del blocco dei concorsi che dura ormai da dieci anni. 

Questo dipende dalle mancate assunzioni?

Non si assume in modo sistematico dagli anni '90. C'è stata qualche assunzione agli inizi del 2000, ma si parla di 300-400 persone, numeri molto bassi.
A Milano abbiamo una scopertura del 25,1%. Tenuto conto che l'organico del Tribunale dovrebbe essere composto da 730 persone, ne mancano 185; in tutti gli uffici giudiziari di Milano mancano complessivamente circa 450 persone.

Quindi in sintesi la giustizia è un settore rispetto al quale ci si scontra sul piano ideologico, ma rispetto al quale in concreto non si investe.

Proprio così. Abbiamo problemi anche per i magistrati. Al Tribunale di Milano abbiamo una scopertura di 50 (cinquanta) persone, in tribunale, nel senso che su 290 magistrati che dovrebbero coprire l'intero organico, ne mancano 50. Questo dipende anche dal fatto che per un certo periodo non sono stati indetti concorsi, che si stanno facendo adesso, ma che in realtà riescono a coprire a malapena il solo turn over.

La magistratura onoraria supplisce a questa carenza?

La magistratura onoraria è necessaria, ma qui a Milano non è utilizzata in modo massivo, anche se questo discorso non vale per i VPO che coprono la maggior parte delle udienze monocratiche.


L'amnistia e l'indulto potrebbero essere una prima risposta, magari emergenziale, ma una prima risposta potrebbero darla ?

Personalmente, sono totalmente contrario, per un motivo molto semplice: sono stato tra il '79 e l'89 in pretura, ho visto innumerevoli amnistie e indulti, di fatto sono misure tampone che non risolvono i problemi, riducono forse il sovraffollamento carcerario del momento, ma non costituiscono una soluzione nel lungo periodo.

Ha un profilo di redditività il sistema giustizia?

Abbiamo fatto un paio di calcoli nel bilancio sociale del tribunale di Milano e noi siamo in attivo, tenuto conto dei beni in sequestro, del contributo unificato, delle tasse di vario tipo, diritti di copia, ecc..

Quindi è un sistema che, non solo si paga, quanto meno a Milano, ma in realtà è attivo e in compenso amministra la giustizia.

Proprio così.

Aumentare il costo dell'accesso alla giustizia per il cittadino può essere uno strumento per ovviare l'esubero di domanda cui faceva riferimento prima, cioè, uscire dalla logica della giustizia come una sorta di ammortizzatore sociale dei conflitti, può essere una risposta?

Una delle tesi che è circolata per lungo tempo, e che tuttora alcuni sostengono,è che bisogna aumentare il costo della giustizia perché, a fronte del cattivo funzionamento, l'innalzamento dei costi rappresenta uno dei modi per scoraggiare la domanda, per disincentivare l'ingresso.  Una tesi che ritengo sbagliata perché porta a negare i diritti, in particolare dei meno abbienti.

In Italia il costo della giustizia è aumentato in questi anni, in particolare del settore civile c'è stato un aumento del 250%

Meno in realtà. In alcuni settori ha avuto un risultato ma erano i settori in cui c'è stato un uso strumentale, e forse l'aumento è stato anche saggio; si pensi alle opposizioni alle sanzioni amministrative: finché era gratuito tutti facevano ricorso. Oggi di fronte all'aumento dei costi della giustizia, che abbraccia ogni aspetto della realtà del singolo, un numero non irrilevante di persone rinuncia a far causa, perché sotto i 5.000 euro non conviene. E questo non è giusto.

Il ricorso alla giustizia è ora disincentivato sia per i costi sia dal generale malfunzionamento. Non rischia, questo, di essere interpretato come una negazione dei diritti?

Certo. Bisognerebbe introdurre a livello elementare, e per tutti le cause relative a importi limitati, degli strumenti molto più agili di tutela, che oggi non esistono. Personalmente trovo che sia stato un errore aver creato il giudice di pace come giudice di diritto, sarebbe stato preferibile un giudice di equità di fronte al quale poteva comparire chiunque, e dove si poteva risolvere la vicenda con un giudizio di equità. Anche perché quello che la gente vuole è la rapidità. Molti si lamentano dei giudizi del giudice di pace, ma in realtà spesso le decisioni sono argomentate in modo opinabile, però normalmente giungono ad una  soluzione  giusta"

Qui il tema va introdotto, troppi avvocati?

Non credo che il problema del numero degli avvocati sia un elemento centrale, come taluni sostengono, rispetto all' aumento del contenzioso. Credo che sia una concausa. La ragione vera è che c'è stata una cecità da parte dell'avvocatura, a partire dagli anni novanta, nel ritenere che non ci dovesse essere una seria selezione interna, illudendosi che il mercato potesse assorbire tutto. La prima illusione in verità è stata quando gli avvocati non hanno voluto a nessun costo rientrare nell'obbligo di frequenza delle scuole di specializzazione. Perché l'idea di fondo originaria era quella di una frequenza obbligatoria delle scuole di specializzazione per chi volesse accedere alle tradizionali professioni forensi. Così quella che era una gloriosa professione liberale ha subito una chiara decadenza. Spesso scherzando dico "Ci son più avvocati che metalmeccanici".

Quello che noto, io son qui da 35 anni, è che quando c'erano meno avvocati, si aveva un rapporto fiduciario molto maggiore; si riconosceva la serietà delle persone. Oggi degli avvocati che entrano da me in udienza forse ne conosco un terzo. L'avvocatura è uno dei cardini della giustizia. È evidente che anche la magistratura è in una situazione di crisi, ma non in relazione al numero. Noi siamo pochi e non riusciamo ad avere un numero di laureati di livello sufficiente. Quasi tutti i concorsi non riescono a prendere il numero di magistrati necessario. Ma questo giustamente, perché viene fatta una selezione abbastanza rigorosa.

Andrea Del Corno con Emanuela Strina, avvocati in Milano





lunedì 8 dicembre 2014

LA PRIMA DENTRO: FIDELIO A SAN VITTORE

"Lo spettacolo, questa sera, siamo stati tutti noi": lo dice Giovanna Di Rosa, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di sorveglianza di Milano, da poco rientrata a Milano dopo il quadriennio al Consiglio Superiore della Magistratura, che non è mancata all'appuntamento della prima della Scala a San Vittore, nonostante questo sia, per lei che si occupa di esecuzione penale,  luogo quotidiano.

E' bello leggere oggi il reportage di Paolo Foschini sulle pagine milanesi del Corriere della Sera.

Fidelio di Beethoven suscita emozioni forti ed è un'opera densa di significato per tutti: ciascuno trova il suo. Come non condividere, allora, l'anelito alla libertà, ma anche al cambiamento, alla trasformazione che può spirare in ognuno di noi, a prescindere dal luogo in cui ci si trovi ?



Che sia nella cella di San Vittore o nella gabbia del contingente che ci attanaglia, possiamo sempre  cercare dentro di noi il desiderio ardente verso il domani e farlo vivere con tutte le energie di cui siamo capaci.

Un'opera, questa opera, può diffondere questo messaggio.







LA TRAMA di Daniela Zacconi è tratta dall'inserto FIDELIO Amore e Libertà distribuito ieri in edicola con il Corriere della Sera

Clicca qui per leggere il post dedicato alla prima a San Vittore 2013


domenica 9 novembre 2014

DA DENTRO A FUORI – SAN VITTORE GLOBE THEATRE: a colloquio con Maria Laura Fadda


DA DENTRO A FUORI – SAN VITTORE GLOBE THEATRE: un progetto che si compone di un
documentario e di uno spettacolo teatrale, realizzato nell'arco di sei mesi all'interno del carcere dall'Associazione ORBITE FUORI CENTRO e diretto da Donatella Massimilla del Centro Europeo Teatro e Carcere (CETEC).
Lo spettacolo andrà in scena al Piccolo Teatro di Milano il 19 e il 20 novembre 2014, nell'ambito della stagione teatrale.

Ne parliamo con chi è a quotidiano contatto con il mondo carcerario, ne conosce bene la realtà ed è particolarmente sensibile alle problematiche correlate allo stato di detenzione: la dottoressa Maria Laura Fadda, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di sorveglianza di Milano.

Come valuta questa iniziativa che coinvolge in prima persona i detenuti?
I detenuti non sono persone "fuori" dalla società, ne hanno fatto parte quando erano liberi e torneranno a farne parte quando usciranno dal carcere.
Il teatro in carcere rappresenta una delle espressioni più alte ed efficaci di un modello educativo "non formale" che ha lo scopo di stimolare e accompagnare il cambiamento profondo delle persone. Questo può avvenire se i detenuti non rimangono soltanto "spettatori" delle rappresentazioni teatrali che entrano in carcere con l'unico scopo di intrattenere o divertire, ma se vengono coinvolti e introdotti all'interno della rappresentazione ove possono "mettersi in gioco".
Il progetto "DA DENTRO A FUORI" diretto da Donatella Massimilla, da anni attiva nelle carceri milanesi e internazionali, esprime plasticamente, anche nel nome, la finalità e la funzione che mi sembra essere fondante: "DA DENTRO A FUORI" non significa solo far uscire i detenuti fisicamente dal carcere per farli recitare in un prestigioso teatro cittadino (esperienza che pure ha un forte valore simbolico), ma significa soprattutto portare il mondo del "DENTRO", per definizione chiuso e sconosciuto, "FUORI", all'esterno delle mura.
Con questa operazione il teatro in carcere raggiunge il suo scopo educativo più importante, che non è solo quello di acquisire la capacità di impegnarsi con continuità, di imparare a lavorare in un gruppo rispettando i tempi e le esigenze degli altri, di imparare a mettersi in gioco e di affrontare le difficoltà di una prova, pure importanti. Accade qualcosa di più: quando il detenuto diventa attore, diventa, seppure entro i confini del testo da recitare, come esperienza emozionale, libero.
Ecco il valore aggiunto del teatro in carcere come esperienza educativa: compiere quella che dovrebbe essere la finalità della pena e cioè l'educazione alla libertà.

Il mondo carcerario  soffre di isolamento rispetto alla c.d. società civile. Che importanza possono avere iniziative di questo tipo al fine di ridurre l'isolamento?
Ridurre l'isolamento del carcere, che rappresenta un'istituzione totale chiusa e dunque non potrà mai, se non ne cambiano le regole fondanti, diventare un mondo del tutto trasparente, rappresenta un'operazione culturale molto complessa; i molti anni di "pratica carceraria" mi fanno pensare che il carcere è vittima ma anche colpevole del suo isolamento, che da un lato lo ghettizza, ma allo stesso tempo gli consente di mantenersi in vita.
Premesso questo, e dunque ricordata la complessità del problema, penso che iniziative, ma qui più che di iniziativa estemporanea si tratta di un vero e proprio progetto attivo da anni nell' istituto di San Vittore,  sicuramente contribuiscano a rendere la società più consapevole che le persone che stanno in carcere, come ho detto prima non sono persone "fuori" dalla società, ne hanno fatto parte quando erano liberi e torneranno a farne parte quando usciranno dal carcere.
Penso però che il progetto teatrale serva soprattutto a ridurre l'isolamento se non dell'istituzione, del soggetto istituzionalizzato, spesso sofferente di marginalità socioculturale per creare condivisione, comunità, senso di appartenenza, coesione. Recitare un testo teatrale può offrire un doppio sostegno a chi deve passare la propria esistenza, magari per molti anni, in pochi metri quadrati, permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi o coartati, spinge alla cooperazione e alla solidarietà. In questo senso il teatro in carcere getta un ponte tra il DENTRO e il FUORI.
Ma il ponte sarà stabile e non cederà alle prime piogge, se anche il "teatro" saprà cogliere gli stimoli che pervengono dal "Dentro". L'attore detenuto, infatti, può a mio avviso rappresentare un valore aggiunto per la compagnia teatrale, poiché in quanto non professionista è portatore di una genuinità e un'autenticità spesso non rinvenibile nell'attore professionista, che quando recita compie semplicemente il suo lavoro.
La reclusione, che rappresenta la differenza tra il teatro "normale" e quello in carcere, può diventare il valore aggiunto di un'opera che si carica di energie, emozioni, sofferenze, frustrazioni particolari che donano una potenza drammatica particolare e unica alla rappresentazione.
Voglio dire che il teatro in carcere in questi anni, e il caso di San Vittore ne è una dimostrazione, ha rappresentato esperienze di grande valore artistico, riconosciute anche dalla critica che molto si è spesa in analisi del settore. E' come se fosse nato un teatro nuovo che collega la grande tradizione artistica italiana alle svariate forme di sperimentazione di questi decenni.

Pensa che, dal punto di vista rieducativo del detenuto, sia importante poter comunicare con il mondo di fuori?
Certamente occorre essere consapevoli che il percorso rieducativo del detenuto non può essere compiuto tutto e soltanto all'interno del carcere; per significare questo da tempo, più che di "rieducazione" termine dai connotati paternalistici, si parla di "reinserimento", "reinserimento sociale".
Penso che questo intendessero i nostri padri costituenti quando stabilirono all'art. 27 della Costituzione la finalità rieducativa della pena, esprimendo la possibilità di cambiamento e di miglioramento dell'uomo, nonostante fossero usciti da un periodo storico in cui sembrava aver trionfato il male assoluto.
Chi lavora con il mondo dell'esecuzione della pena dovrebbe essere guidato da questa opzione culturale e spendere le proprie energie perché ciò avvenga. Ora, può sembrare che rinchiudere per meglio reinserire sia una contraddizione troppo difficile da superare, e sarebbe in effetti così se già durante l'esecuzione della pena non vi fosse la possibilità di far uscire gradualmente dal carcere le persone che hanno raggiunto un livello di maturazione del rispetto delle regole tale da non essere più pericolose per la collettività.
La comunicazione con il mondo che sta fuori dal carcere è un elemento importantissimo del trattamento rieducativo; pensiamo al valore che ha mantenere i rapporti affettivi con i familiari attraverso le telefonate, i colloqui o anche i permessi, oppure poter uscire dal carcere la mattina per andare a lavorare e poi tornare la sera. Sono tutte esperienze che non solo consentono di evitare quello che viene definito l'effetto desocializzante del carcere (e cioè il contrario del reinserimento sociale), ma che aiutano le persone detenute a non uscire a fine pena in  condizioni peggiori di quando erano entrati.
Ancora una volta torniamo a quanto dicevo all'inizio, e cioè che occorre comprendere che chi è in carcere prima o poi uscirà: è compito nostro, sia di noi operatori, ma aggiungo, della società tutta che non esca incattivito, umiliato, abbandonato.

Che incidenza può avere una maggiore conoscenza della realtà detentiva da parte della c.d. società civile rispetto all'opera di risocializzazione di chi è stato in carcere?
In Lombardia e soprattutto nel distretto della Corte d'Appello di Milano, la società civile tutta, dal mondo imprenditoriale, bancario e cooperativo, all'associazionismo, al volontariato laico e cattolico svolge un ruolo fondamentale per favorire il reinserimento sociale dei detenuti.
C'è molta attenzione a questa problematica e desiderio di impegno civile, anche nei giovani, che si traduce in un'estrema ricchezza di iniziative organizzate sia dentro che fuori dal carcere; tale ricchezza rappresenta un valido ausilio per gli istituti di pena, nel tempo diventati sempre di più istituzioni fragili in quanto sovraffollati a paralizzati dal taglio delle risorse.
Posso tranquillamente affermare che senza questo apporto le opportunità di reinserimento lavorativo o comunque educativo sarebbero del tutto insufficienti. Conseguentemente, tanto più il carcere rimane in città, come un pezzo della città e non come un corpo estraneo da espellere là dove non può essere "visto", tanto più il rapporto con la società civile potrà essere più stretto e proficuo.
Uso il termine "rapporto" non a caso, ma perché voglio significare che il carcere è un luogo che non solo "prende" , ma anche "dà" alla società civile.
E' presente un forte desiderio di "restituzione" che è nostro compito raccogliere e incanalare nel modo giusto, come ad esempio già avviene quando i detenuti vanno nelle scuole a parlare ai ragazzi della violenza e del bullismo o durante la giornata di ferragosto con la pulizia dell'Idroscalo.
Sicuramente anche un' opera teatrale che nasce in carcere, ma viene rappresentata in un importante teatro cittadino rappresenta un positivo esempio di "scambio" culturale.
Credo che il significato più vero di "DA DENTRO A FUORI" sia questo: un teatro che opera in carcere e dunque un teatro fondato sull'ascolto dei luoghi in cui opera, sull'attenzione alle biografie delle persone coinvolte, sulla fatica di convivere con un'istituzione estranea e forse anche ostile, porta all'esterno un messaggio molto forte.
Allo stesso tempo, la possibilità per i detenuti attori di uscire e calcare la scena in un luogo ove molto probabilmente non sono mai entrati da liberi e di cui mai hanno sperimentato l'emozione, anche di spettatori, rappresenta un arricchimento interiore non svendibile, non barattabile con altri tipi di esperienze educative.
In conclusione, se certo il teatro non è la soluzione per risolvere i problemi del carcere o del trattamento rieducativo, può però affermarsi che il teatro rappresenta un utile ed efficace strumento di recupero della persona che, per motivi più o meno gravi, si è perso. 



venerdì 26 settembre 2014

MODIFICA DELL’ARTICOLO 275 C.P.P. DOPO LA CONVERSIONE DEL DECRETO LEGGE N. 92


Il decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014 ha modificato il comma 2 bis dell'articolo 275 del codice di procedura penale imponendo di non applicare la custodia cautelare in carcere nel caso in cui il giudice  ritenga che, all'esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni.

Abbiamo parlato di questa modifica e dei problemi da essa scaturiti con Fabio Roia, magistrato del Tribunale di Milano, che aveva riferito di possibili interventi correttivi della norma.

Il decreto legge è stato convertito nella legge 11 agosto 2014 n. 117, con modificazioni che riguardano (anche) l'articolo 275, nel senso che tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423 bis, 572, 612 bis e 624 bis del codice penale, nonché all'articolo 4 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 e successive modificazioni, e quando, rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell'articolo 284, comma 1, del codice di procedura penale.

Resta da verificare se le correzioni apportate siano effettivamente idonee a contenere l'allarme suscitato dalla formulazione originaria ed evidenziato nel post del 28 luglio 2014.

Clicca qui per visualizzare le modifiche apportate all'art. 275 c.p.p.


lunedì 15 settembre 2014

L’ORGANIZZAZIONE DELLA GIUSTIZIA: a colloquio con Anna Introini



Un tema che riveste importanza strategica, quello dell'organizzazione del pianeta giustizia, per il quale non è previsto un corso universitario che non sia il fronte della prima linea; ne parliamo con Anna Introini, magistrato, presidente della nona sezione penale del tribunale di Milano e presidente vicario della 1° sezione della corte d'assise di Milano

L'attuale sistema prevede che l'organizzazione dell'ufficio giudiziario, e quindi in ultima analisi il funzionamento del sistema giustizia, sia compito del magistrato. Quale presidente di sezione di tribunale, la dottoressa Introini ha anche questo ruolo. A lei dunque ci rivolgiamo, iniziando con una domanda diretta: come funziona un ufficio giudiziario?
L'organo giudiziario è composto da magistrati che hanno il compito di fare i processi e le sentenze, e organizzare gli uffici. A fianco dei magistrati lavora personale amministrativo, come il cancelliere, che dipende però dal ministero di giustizia, e ha uno statuto e un'organizzazione diversa da quella dei magistrati. Noi invece non dipendiamo dal ministero di giustizia, e lo possiamo dire, non abbiamo capi gerarchici.

Mettiamo quindi in chiaro questo primo punto: i magistrati da chi dipendono?
Noi siamo un potere dello Stato, noi siamo una funzione dello Stato, quindi il magistrato è libero e risponde solo alla legge, anche se rispondiamo disciplinarmente al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), che è un organo costituzionale politico. Come giudice, non ho superiori gerarchici, sottostò a poteri gerarchici solo per quanto concerne l'organizzazione del tribunale e l'organizzazione dell'ufficio che presiedo, ma non nel mio lavoro di giudicante.

Dal punto di vista professionale, dunque, ciascuno di voi è libero, e può agire in base ad una assoluta indipendenza
Dipendiamo ovviamente dalla legge, dai codici, dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Certamente, noi siamo passibili di sanzioni e di responsabilità, siamo passibili di sanzioni disciplinari e, secondo la nuova legge, rispondiamo per dolo e colpa grave.

Torniamo invece al profilo organizzativo
Sotto questo aspetto sono inserita in una struttura e quindi devo tener conto dell'organizzazione del tribunale, che è una vera e propria struttura che prevede le cosiddette tabelle triennali, che vengono approvate dal CSM, che riguardano l'organizzazione, cioè la divisione dei compiti dei magistrati, i settori, penale e civile, le competenze, le sezioni, come sono composte queste ultime e la divisione del lavoro.

Le tabelle sono redatte dai magistrati e poi approvate dal CSM?
Si, sono redatte dai magistrati, dal presidente del tribunale e della corte d'appello, e vengono approvate o meno dal CSM. Se non sono approvate, bisogna rifarle. Il CSM può anche dare dei suggerimenti con delle circolari che possono dettare i principi generali entro cui rimanere.

Quindi ogni tribunale stabilisce la sua tabella ?
Si, ed è triennale; però, come dicevo, le tabelle attengono alle organizzazioni interne e prevedono l'organizzazione e la suddivisione degli affari, è poi ovvio che tribunali grandi, avranno tabelle più corpose, tribunali piccoli avranno tabelle più semplici.

E i servizi di cancelleria?
Accanto a noi ci sono tutti i servizi di cancelleria che sono essenziali e basilari, senza i quali il lavoro del magistrato è inutile, ma che procedono su un binario parallelo, perché la stranezza, l'anomalia, che magari è anche un valore aggiunto a volte, sta in questo, e faccio un esempio pratico che è più immediato. Io sono presidente di sezione, sono responsabile del lavoro dei giudici, lavoro inteso come adempimento del lavoro, come puntualità del deposito delle pronunce, non certamente della decisione. E sono anche responsabile dei servizi di cancelleria. Quindi io devo osservare, controllare che la cancelleria funzioni bene, ma non ho potere gerarchico nei confronti del dipendente della cancelleria: dobbiamo collaborare.

Non c'è quindi subordinazione ?
No, quella no, posso esercitare una forma di controllo, ho potere di fare delle osservazioni, di promuovere trasferimenti disciplinari, quindi c'è una forma di controllo come dicevo, però non c'è subordinazione gerarchica.

 Ma chi determina in concreto l'organizzazione dell'ufficio?
Come ci siamo detti all'inizio l'organizzazione dell'ufficio è determinata dal magistrato, che tuttavia deve tener conto che il cancelliere e gli assistenti di udienza, appartenendo al ministero della giustizia, sono statali, anche se in modo diverso dal magistrato, per esempio hanno orari diversi dai nostri. Mi spiego, i giudici non hanno orari, diciamo che fanno quello che devono fare, mentre gli assistenti di udienza alle cinque terminano, perché per esempio non gli vengono pagati gli straordinari, perché non possono fare recupero e quindi talvolta si finisce con il chiedere favore e collaborazione in base al rapporto personale instaurato con quel cancelliere o assistente d'udienza. Questo può dar luogo a equilibri difficili da mantenere e che si possono rompere per un nonnulla, perché dipendono dalla sensibilità, dalla delicatezza delle persone, da come si chiedono le cose, dal rapporto personale, tutti aspetti essenziali, anche se quando si lavora dovremmo essere tutti dei professionisti.

Quindi in cosa si traduce l'aspetto manageriale del magistrato?
L'aspetto manageriale del magistrato, naturalmente parlo per me, della mia competenza nel settore penale, sta nel tenere presente quali sono le risorse umane, i mezzi, qual è il numero delle aule disponibili, il numero di cancellieri presenti, il servizio di cancelleria, il numero di magistrati, avere in mente come potrebbe essere il flusso dei processi in entrata. Ma qui si apre un problema non indifferente: noi non sappiamo mai quanti processi arriveranno, e anche se si tiene conto delle medie ponderate degli anni precedenti, è pur sempre un dato empirico. Faccio un esempio: l'EXPO potrebbe essere foriero di molta criminalità, perché da determinati eventi possono scaturire tipi specifici di criminalità. Ma è difficile prevederlo. Da manageriale in senso stretto, quindi, il lavoro può facilmente diventare artigianale.

Quindi voi organizzate la cancelleria, organizzate concretamente il servizio, organizzate la gestione dei processi, ma poi, quando bene bene si è messo tutto insieme, come gira la macchina?
Molto in concreto, abbiamo oramai delle prassi che ognuno di noi cerca di seguire. Ma è tutto a livello un po' empirico. Il CSM sta facendo dei corsi, utilizzando ad esempio alunni esperti, che vengono tutti dal politecnico di Milano, che noi sappiamo essere la scuola d'eccellenza. Questi tecnici sono bravissimi, soprattutto gli ingegneri gestionali, ma quando poi vedono di fatto quali sono i nostri numeri, soprattutto quali sono le nostre variabili e incognite, ci dicono "Ma voi lavorate solo sull'emergenza". "Certo" rispondo io, "lavoriamo sull'emergenza", perché seppure mi sforzo di fare un calendario perfetto dei processi, ma arriva poi un processo a carico di detenuti, tutto l'ordine cambia, anzi, è letteralmente sovvertito. Devo quindi prevedere degli spazi vuoti, come avevo fatto con questo calendario, per eventuali emergenze. Ma il problema è che in ogni processo ci sono delle variabili che, anche se le si valuta correttamente, o le si mettono in conto, è impossibile prevedere completamente: possono esserci processi che hanno trenta incognite. Allora si va avanti a vista.

L'aspetto manageriale è quindi difficile da attuare
Nella realtà non è così drammatico, per organizzare il ruolo di udienza, un minimo di esperienza, di professionalità, consente di avere un po' di programmazione, ma certamente l'aspetto della managerialità nella giustizia ha questi limiti.

Qui si inserisce l'aspetto dei tempi della giustizia, che è la nota dolente richiamata da tutti senza che, di fatto, vengano offerte soluzioni concrete. Quanto e come  incide la funzione organizzativa sui tempi della giustizia?
Molto, molto. Ho potuto constatarlo nella mia sezione: una buona organizzazione, una definizione precisa del calendario, il rispetto degli orari, dei tempi, e, mi permetta, un minimo di rigidità in punto di rispetto dei tempi, ma al contempo di flessibilità ed elasticità tenuto conto della situazione concreta, tutto questo ha ridotto i tempi della definizione dei processi della nona penale, della sezione da me diretta,

Senza comprimere gli spazi della difesa ?
Senza comprimere l'attività difensiva. Credo di poter dire che, anche se commetto tanti errori, difficilmente ho compresso i diritti della difesa. Ho solo esercitato il potere che mi dà il codice di stoppare gli avvocati e il PM, quando divagano.

Tornando al compito organizzativo, il caso del giudice ottimo ma disorganizzato, è sinonimo di garanzia sotto il profilo della funzione giurisdizionale, ma può essere un problema sotto il profilo organizzativo. E' davvero un problema, e se sì come lo si affronta?
Può essere un ostacolo, ma sarebbe il caso che questo giudice facesse il giudice, e non andasse a dirigere un ufficio. Perché per dirigere un ufficio, per avere funzioni direttive, è importante sapere che cosa vuol dire organizzare, e soprattutto cosa vuol dire sfruttare al meglio le risorse umane e i mezzi che si hanno a disposizione. Mi spiego: noi magistrati siamo degli animali strani, a mio avviso tutti molto bravi, ma tutti con dei profili di grossissima autonomia, siamo delle prime donne, affette da narcisismo. Lavoriamo da soli, non sempre sappiamo lavorare in équipe, perché il lavoro del magistrato è un lavoro solitario. Il buon dirigente è dunque quello che riesce a far emergere il meglio di tutte le persone e a farle lavorare in sinergia: non è facile. Questo comporta studio, osservazione e ascolto delle persone; per intenderci, è vero che abbiamo l'automatismo nell'assegnazione dei processi, ma nell'ambito di una sezione di sette o otto magistrati si può ascoltare e cercare di andare incontro alle varie esigenze.

Parliamo dei costi della giustizia. Che incidenza ha sui costi questo sistema organizzativo?
Noi magistrati non sappiamo fare i conti della giustizia perché in un sistema in cui l'azione penale è obbligatoria, non possiamo fare i conti con quanto costa quello che stiamo facendo. Questo tanto più nel momento in cui abbiamo un legislatore che, per sopperire alle mancanze dei nostri sistemi e per evitare di essere continuamente sanzionato dalla CEDU (Corte Europea dei Diritti dell'uomo), emana leggi senza tener conto dell'impatto economico sui bilanci dello Stato. Faccio un esempio prendendo spunto dalle nuove norme che hanno disciplinato l'istituto della traduzione degli atti per gli imputati stranieri: era stata formulata una previsione di spesa di circa sei milioni di euro; bene, da un calcolo empirico fatto da noi magistrati, abbiamo visto che questi sei milioni di euro destinati a interpreti di tutta Italia, che devono tradurre tutti gli atti agli stranieri, potranno coprire le spese fino a novembre 2014 e dopo, difficilmente. Questo perché in questi conti noi non c'entriamo: se ho tutti imputati stranieri che affermano di non parlare italiano, mentre magari lo parlano, e la norma prevede che la traduzione orale in aula non sia più sufficiente a pena di nullità, sono obbligata a dare incarichi di traduzione, ed è vero che sono io a dare l'ordine di traduzione, ma non sono io che gestisco l'aspetto del costo.

Sul tema dei costi e delle garanzie. Quanto incidono i costi delle difese d'ufficio per i non abbienti, coloro che sono ammessi al patrocinio a spese dello Stato.
Sicuramente, pare la prima voce del ministero della giustizia, noi abbiamo un sistema delle difese d'ufficio per questi soggetti che mi piacerebbe saper se qualcuno ha mai calcolato in termini di costo. Noi magistrati abbiamo poi il compito di liquidare le note di coloro che sono ammessi al patrocinio a spese dello Stato e veniamo odiati dagli avvocati, perché ne falcidiamo gli importi. E' che nel momento in cui dai un potere a qualcuno, questo qualcuno lo usa. E' normale, se a me dicono "Controlla le liquidazioni degli avvocati", io controllo. Cerco di farlo. C'è chi lo fa meglio e chi lo fa peggio.

La difesa è un diritto e una garanzia incomprimibile, come potrebbe essere organizzata a favore di coloro che sono privi di mezzi, dal suo punto di vista?
Penso che su questo istituto, come su altri, dovremmo confrontarci, discutere, facciamo uno studio di come si può tutelare il diritto costituzionale della difesa. A me potrebbe venire in mente il sistema americano, avvocati stipendiati dallo Stato che facciano un servizio di questo tipo, qualcuno potrebbe dirmi: ma guarda che negli Stati Uniti ha funzionato male. Possiamo prevedere una turnazione dei professionisti, non lo so, ragioniamo.

Se dovesse individuarne nel sistema, qualche punto di criticità, sotto il profilo economico e organizzativo, secondo lei, da cosa occorrerebbe partire?
Innanzi tutto una scelta di capi d'ufficio che avvenga sulla scorta di reali capacità organizzative e non supposte, dove queste reali capacità organizzative possano derivare dal percorso professionale svolto; poi introdurre anche per noi degli studi manageriali, che non siano a livello bocconiano o cose del genere, ma diano delle indicazioni sull' organizzazione degli uffici, quindi una maggiore correlazione con il personale amministrativo, perché il problema del magistrato è che non ha potere di spesa. Per garantire il risultato, posso disporre di chiudere, di fare i processi in tre mesi (a Milano un giudizio col giudice monocratico si celebra in quattro mesi circa); potrei dire "d'ora in poi i processi li voglio chiudere in tre mesi, con tutte le garanzie", ma per poter fare questo ho bisogno di quattro cancellieri e cinque aule, lo dico e poi non le ho, non le posso nemmeno rendere disponibili, e quindi il mio progetto finirebbe con il rimanere lettera morta.


Sembra di poter dire che si parla dei costi della giustizia, ma concretamente nessuno sa come metterci mano, perché composta da mille elementi diversi e spesso antagonisti. Su cosa interverrebbe per prima cosa? Per dare una maggior speditezza al processo senza comprimere la difesa e creando un sistema il più possibile efficiente al contempo.
Innanzi tutto farei uno studio serio della mappa del territorio. Darei forse una maggiore autonomia ai capi dell'ufficio, sia magistrati sia amministrativi, proponendo un sistema che si ponga degli obbiettivi, con l'obbligo, quanto meno, di motivarne il mancato raggiungimento. E' il tema del "non è colpa mia", perché se uno si assume la responsabilità, poi alla fine la colpa è sua. Il problema dell'Italia, in generale, è che succede qualcosa ma non è colpa di nessuno, meno che mai mia. Personalmente, sono favorevole ad una concezione verticistica perché è l'unico modo per creare un adeguata assunzione di responsabilità.

È proponibile un manager esterno?
Non ho niente in contrario, purché, prima di assumere decisioni, questo manager abbia osservato, lavorato gomito a gomito per un periodo di tempo con me, e possa quindi vedere che cosa succede nel quotidiano, quali sono le ragioni per le quali i processi non si riescono a finire in tempo.

E investire nella giustizia in modo serio e continuativo ?
Bisogna con realismo mettere in conto una cosa che però tutto ciò che fa il magistrato scontenta qualcuno. È un lavoro che non ha mai un consenso pieno. Nel penale, se condanno non ho il consenso dell'imputato, se assolvo non ho il consenso della parte civile. Noi facciamo un lavoro che tratta "il patologico", è chiaro che scontentiamo, disturbiamo, bisogna guardarsi quando viene osannata la magistratura, perché vuole dire che siamo in qualcosa che non va bene, è un circuito vizioso. La magistratura poi è tendenzialmente conservatrice perché lavora su leggi, e su fatti già avvenuti, passati. In uno Stato normale il patologico non interessa, non si investe nulla, si cerca di lasciarlo perdere, salvo il sensazionalismo. Invece la giustizia è un punto cardine della civiltà di un paese; in Norvegia hanno un rapporto cittadino-territorio così piccolo che riescono a operare un buon controllo e la giustizia è ai primi posti in termini d'investimento.  Nei paesi levantini come ormai siamo noi, nel sud dell'Europa, ci sono livelli di criminalità tali che non si riesce a risolvere la cosa.

Quanto può aiutare la tecnologia per modernizzare il mondo della giustizia ?
Occorre intenderci sul termine "modernizzare". La tecnologia può essere un ottimo ausilio e va utilizzata, ma questo non significa necessariamente creare qualcosa che funzioni e che vada bene a tutti. 

Andrea Del Corno con Emanuela Strina, avvocati in Milano