venerdì 26 luglio 2013

LA CIRCOLAZIONE DELLE PROVE: la consulenza del pm può divenire prova atipica nel giudizio civile

Nel caso deciso dal Tribunale di Reggio Emilia si affronta l'istanza risarcitoria dei parenti e degli eredi del conducente di un motociclo che ha perso la vita in un tragico sinistro stradale.

La richiesta di risarcimento dei danni subiti è stata rivolta all'impresa assicuratrice designata dal Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada perché gli attori (i parenti e gli eredi della vittima) hanno affermato che il loro congiunto era stato urtato da una Renault 19 rimasta non identificata, come comprovato dallo specchietto retrovisore rinvenuto in loco e riconducibile a tale tipologia di autovettura. A causa di tale scontro e nel conseguente stato di precario equilibrio, poi,  il conducente del motociclo urtava il cordolo divisorio della carreggiata, venendo sbalzato nell'opposta carreggiata ove era stato travolto da altra autovettura che ivi transitava nel proprio senso di marcia.

L'impresa assicuratrice (convenuta) ha resistito alla domanda  avversaria, sostenendo che, diversamente da quanto dedotto dagli attori, il conducente del motociclo, che procedeva a velocità troppo elevata, aveva dapprima urtato il cordolo e solo successivamente, e a causa della conseguente sbandata, aveva urtato lo specchietto retrovisore della Renault 19 rimasta non identificata, prima di essere sbalzato nell'opposta carreggiata ove poi era stato investito. Per queste ragioni la convenuta,  ritenendo che il sinistro non potesse in alcun modo essere causalmente ricondotto al comportamento dell'auto rimasta non identificata, ha chiesto il rigetto della domanda dei congiunti della vittima.

Il Tribunale di Reggio Emilia ha stabilito che la domanda degli attori non è fondata perché l'istruttoria espletata ha comprovato che i fatti si sono svolti come dedotto dalla parte convenuta. Secondo quanto motivato dal giudice, infatti, tale conclusione si radica non solo sulle deposizioni dei testi indicati dalle parti, ma anche, e senza alcun dubbio, sulla relazione svolta dal consulente del Pubblico Ministero nell'ambito del procedimento penale.

Detta relazione è stata infatti valutata come prova c.d. atipica (prova cioè che non è ricompresa "nel catalogo dei mezzi  probatori specificamente regolati dalla legge")  nel giudizio civile, pur integrando un atto di indagine proprio del procedimento penale.   

Le prove c.d. atipiche sono pienamente ammissibili, "con efficacia probatoria  comunemente indicata come relativa a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. od argomenti di prova",  perché - come spiegato in sentenza -  anche se "nell'ordinamento civilistico manca una norma generale, quale quella prevista dall'art. 189 c.p.p. nel processo penale" , non esiste una norma di chiusura che indichi che le prove sono solo quelle elencate e disciplinate dalla legge.

L'ammissibilità di tali prove è supportata da giurisprudenza e dottrina, "da anni consolidate e unanimi", tenuto altresì conto dell' "oggettiva estensibilità"  del contenuto del concetto di produzione documentale, dell' "affermazione del diritto alla prova" e del "correlativo principio del libero convincimento del Giudice". Nella sentenza non mancano esemplificazioni e puntuali citazioni giurisprudenziali  al riguardo, che avvalorano la decisione assunta nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale reggino, secondo il quale la risultanza della consulenza resa nel procedimento penale deve ritenersi prova atipica "con il valore di argomento di prova".


mercoledì 17 luglio 2013

MOVIMENTO FORENSE: la proposta di modificare l'art. 474 c.p.c.

Dall'avv. Omar Mornata del Foro di Milano riceviamo e pubblichiamo questa segnalazione:
Il  MOVIMENTO FORENSE propone di modificare l'art. 474 del codice di procedura civile, includendo nel novero degli atti aventi efficacia di titolo esecutivo le transazioni sottoscritte dalle parti con l'assistenza dei difensori relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, analogamente a quanto previsto per le scritture private autenticate.
E' una proposta che apprezzo perché finalmente concreta e perché implica una modifica semplice, limitata all'ambito dei diritti disponibili e alle obbligazioni pecuniarie, che renderebbe le transazioni immediatamente suscettibili di esecuzione forzata, previa notificazione del precetto, eliminando la necessità di radicare contenziosi quali che siano. Il che si tradurrebbe in un sicuro risparmio di tempo e di costi per il cittadino.

martedì 16 luglio 2013

INFEDELTÀ CONIUGALE: profili penali dell’accesso abusivo al profilo SKYPE e della produzione dei messaggi nel giudizio di separazione

Al fine di dar prova delle relazioni intrattenute dal coniuge con altri soggetti, un marito ha prodotto nel giudizio civile di separazione,  messaggi e fotografie estratti dal profilo SKYPE della moglie, che li aveva scambiati con un terzo, e contenenti "un fitto scambio di reciproci apprezzamenti di carattere esplicitamente sessuale".
La vicenda giunge all'esame del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Milano perché valuti la richiesta di archiviazione del procedimento penale apertosi a carico del marito a seguito della denuncia-querela proposta dalla moglie.
Con l'ordinanza 17 aprile 2013, il GIP di Milano ha disposto la c.d. imputazione coatta a carico del marito  (art. 409, 5° comma, codice di procedura penale) per i reati di cui all'art. 615 ter codice penale (accesso abusivo a un sistema informatico o telematico) e 616, 1°, 2° e u. co. codice penale (violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza) ravvisando la sussistenza degli elementi necessari a sostenere l'accusa in giudizio.
Il Giudice ha infatti ritenuto che l'ipotesi accusatoria si concretasse nei confronti del marito:
quanto all'art. 615 ter cod. pen., per essersi introdotto abusivamente, aggirando le misure di sicurezza per l'accesso, o comunque, utilizzando senza averne titolo la password personale della titolare, nel profilo SKYPE appartenente alla moglie; e
quanto all'art. 616, 1°, 2° e u. co. cod. pen., per aver preso cognizione delle comunicazioni in "chat" avvenute dal profilo SKYPE della moglie con un terzo utente del programma e averle successivamente rivelate, senza giusta causa, mediante deposito della stampa delle stesse nel  giudizio civile di separazione con la predetta.
Sotto tale ultimo aspetto, il Giudice per le Indagini Preliminare ha considerato che il marito "poteva dar prova, davanti al giudice civile, delle relazioni della moglie con altri soggetti attraverso i tradizionali strumenti processuali  [cioè con un ordine di esibizione ex art. 210 cod. proc. civ., n.d.r.] e senza arrogarsi il diritto di 'captare' (sono parole dell'indagato) la corrispondenza altrui". Sul punto, il GIP ha infatti citato espressamente la massima estratta dalla pronuncia della Suprema Corte n. 35383/11 (si veda il post precedente a questo) con cui è stato statuito che:
"Integra il reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 cod. pen.), la condotta di colui che sottragga la corrispondenza bancaria inviata al coniuge per produrla nel giudizio civile di separazione; né, in tal caso, sussiste la giusta causa di cui all'art. 616, comma secondo, cod. pen., la quale presuppone che la produzione in giudizio della documentazione bancaria sia l'unico mezzo a disposizione per contestare le richieste del coniuge-controparte, considerato che ex art. 210 cod. proc. civ., il giudice, può, ad istanza di parte, ordinare all'altra parte o a un terzo, l'esibizione di documenti di cui ritenga necessaria l'acquisizione al processo.".

venerdì 12 luglio 2013

INFEDELTA’ CONIUGALE: I MESSAGGI TELEFONICI E DI POSTA ELETTRONICA FANNO PROVA?

Nel corso di un giudizio di separazione giudiziale avanti al Tribunale di Torino, sono state prodotte in causa copie di e-mail e sms che dimostrano l'esistenza di una relazione extraconiugale.
Il Tribunale ha ritenuto inequivocabilmente provata la sussistenza di detta relazione  -  nella fattispecie posta a base della pronuncia di addebito della separazione -  sulla scorta della documentazione versata in atti, di cui ha valutato ammissibilità e utilizzabilità, nonostante che fosse stato eccepito che la "cognizione e successiva produzione della corrispondenza" costituisse "illecito di rilevanza penale".
Nell'ordinanza - integralmente richiamata dalla sentenza -  emessa dopo l'esame delle memorie depositate ai sensi dell'art. 183, 6° comma del codice di rito, il Tribunale ha infatti rilevato che la corrispondenza non era stata disconosciuta ai sensi degli articoli 2712 e ss. c.c., sicché le riproduzioni documentali  della corrispondenza elettronica intercorsa non erano state "contestate in sé, quanto alla genuinità o autenticità, ma solo nella loro utilizzabilità per le conseguenze penali connesse" .  
Sotto tale ultimo profilo, inoltre, il Tribunale ha osservato che il c.d. codice della privacy (D. Lgs 30 giugno 2003 n. 196) a) esclude la richiesta di consenso nell' ipotesi di diffusione necessaria "per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria" purché i dati siano trattati per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (art. 24 lett. f); b) esclude parimenti l'informativa preventiva nelle medesime ipotesi (art. 13); c) riserva alla disciplina processuale in materia civile e penale la questione della validità, efficacia e utilizzabilità di tali atti (art. 160 comma 6); d) il contemperamento tra il diritto alla riservatezza e il diritto di difesa deve dunque essere rimesso in assenza di una precisa norma processuale civile, alla valutazione del singolo giudice nel caso concreto (tra le pronunce più recenti citate dal Tribunale:  Cass. 5.8.2010, n. 18279 e Cass. 8.2.2011, n. 3034).
A tale ultimo proposito, la Suprema Corte (Cass. civ. sez. III, 11 febbraio 2009, n. 3358)  ha affermato altresì  che la produzione in giudizio di documenti contenente dati personali è sempre consentita se necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza, anche se la facoltà di difendersi in giudizio utilizzando gli altrui dati personali va esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza, sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa.
D'altra parte, è da tener presente che nel processo civile non vige il principio di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite invece sancito dall'art. 191 del codice di procedura penale.
In ogni caso, la mancata integrazione di una violazione del diritto alla riservatezza della produzione documentale di cui s'è più sopra detto non importa una totale irrilevanza della condotta dal punto di vista penale ché secondo la Suprema Corte (Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2011, n. 35383) la produzione processuale di documenti ottenuti illecitamente, tramite la lesione di un diritto fondamentale, può essere scriminata per giusta causa, ai sensi dell'art. 616, comma 2, codice penale, soltanto quando costituisca l'unico mezzo a disposizione per contestare le pretese della controparte e l'imputato riesca a dar prova di tale circostanza. Pronuncia, quest'ultima, che innova rispetto al precedente orientamento in tema di  violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza che considerava  una "giusta causa" di rivelazione (del contenuto della corrispondenza), quella del coniuge che si avvalga della corrispondenza quale mezzo di prova per contestare la richiesta del coniuge relativa all'assegno di mantenimento (Cass. pen. Sez. V, 10 luglio 1997 n. 8838).

martedì 9 luglio 2013

ESECUZIONE DELLA PENA: le disposizioni urgenti del decreto legge n. 78

L'emergenza dovuta al perdurante sovraffollamento delle carceri ha imposto l'adozione di misure urgenti.
Sulla scorta di quanto deliberato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 26 giugno 2013, è stato emanato il decreto legge del 1° luglio 2013 n. 78, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 153 del 2 luglio 2013 e in vigore dal giorno successivo (3 luglio 2013), che fa espresso riferimento anche al termine assegnato allo Stato italiano con la sentenza 8 gennaio 2013 pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nella causa Torreggiani e altri c. Italia.

Si tratta di una prima risposta, quella del decreto legge n. 78, che mira soprattutto a sfoltire l'ingresso in carcere, pur introducendo talune cautele inedite, come quella del comma 1-bis - aggiunto dopo il comma 1 – dell'art. 284 (arresti domiciliari) del codice di procedura penale,  secondo la quale il giudice stabilisce il luogo degli arresti domiciliari in modo da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato.

Le novità maggiori interessano tuttavia l'art. 656 del codice di rito e, in particolare, il momento in cui deve essere disposta la carcerazione perché deve essere eseguita una pena detentiva. Infatti:

* dopo il comma 4 sono aggiunti:
-  il comma 4-bis, che riguarda i casi – fuori da quelli previsti dal comma 9 lett. b) – in cui la residua pena da espiare non superi i limiti indicati al comma 5, "computando le detrazioni previste dall'art. 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354", e impone dunque al pubblico ministero, prima di emettere l'ordine di esecuzione, di verificare l'esistenza di periodi di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile relativi al titolo da eseguire, e di trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza affinché provveda all'eventuale applicazione della liberazione anticipata. Il magistrato di sorveglianza provvede senza ritardo. La disposizione non si applica nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4 -bis della legge 26 luglio 1975, n. 354;
- il comma 4-ter, che riguarda il condannato in stato di custodia cautelare in carcere, rispetto al quale il pubblico ministero deve emettere l'ordine di esecuzione e stabilisce che, se ricorrono i presupposti di cui al comma 4-bis, debbano essere trasmessi gli atti al magistrato di sorveglianza per la decisione sulla liberazione anticipata;
- il comma 4-quater, che prevede che, nei casi contemplati al comma 4-bis, il pubblico ministero emetta i provvedimenti previsti ai commi 1, 5 e 10 dopo la decisione del magistrato di sorveglianza;

* al comma 5, è previsto l'innalzamento da tre a quattro anni del valore massimo della pena che può essere sospesa per verificare l'applicabilità di misure alternative alla detenzione, ma l'elevazione della soglia riguarda soltanto i casi previsti dall'art. 47 -ter, comma 1, della legge 1975, n. 354 (cioè quelli delle pene da eseguire nei confronti di a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole; c) persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; d) persona di età superiore a sessanta anni, se inabile parzialmente; e) persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia;

* al comma 9 sono apportate modificazioni: alla lettera a), che escludono la sospensione dell'esecuzione ai soli condannati per i delitti di cui all'articolo 572, secondo comma (che riguarda le ipotesi di condotte di maltrattamenti dalle quali derivano lesioni gravi o gravissime, ovvero la morte), e 612-bis, terzo comma (che riguarda le ipotesi di atti persecutori ai danni di un soggetto minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità, o con armi o da persona travisata), del codice penale; alla lettera c) (che riguarda i condannati ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, codice penale), che viene soppressa.

* al comma 10 è aggiunta l'ipotesi di sospensione dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione con trasmissione senza ritardi degli atti al tribunale di sorveglianza perché provveda all'eventuale applicazione di una delle misure alternative di cui al comma 5 "se la residua pena da espiare determinata ai sensi del comma 4-bis non supera i limiti indicati dal comma 5".

L'art. 2 del dl n. 78 apporta modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Riforma dell'ordinamento penitenziario) puntando a ridurre la permanenza in carcere di detenuti e internati con l'assegnazione a lavori di pubblica utilità, estendendo le ipotesi di detenzione domiciliare, rimuovendo le preclusioni alla concessione dei permessi premio, della semilibertà, dell'affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare ai recidivi.

Le modifiche interessano in particolare:

-              l'art. 21 (che riguarda il lavoro all'esterno cui possono essere ammessi i detenuti e gli internati): dopo il comma 4-bis, è aggiunto il comma 4-ter, che contempla la possibilità di detenuti e internati, che quindi hanno in corso di esecuzione la pena, di essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell'esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgersi presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato (un esempio è recentemente venuto da detenuti nel carcere di Bollate assegnati a lavori di imbiancatura in una scuola comunale);

-              l'art. 47 -ter (che riguarda la detenzione domiciliare): i) il comma 1.1 è soppresso, estendendo così al condannato recidivo la possibilità di scontare in regime di detenzione domiciliare la parte residua di pena che non supera i tre anni; ii) con il medesimo intento, al comma 1-bis vengono soppresse le parole che precludono la detenzione domiciliare ai recidivi; iii) il comma 1-quater è integralmente sostituito con previsioni che stabiliscono, dopo che ha avuto inizio l'esecuzione della pena, l'istanza di applicazione della detenzione domiciliare sia rivolta al tribunale di sorveglianza; il magistrato di sorveglianza rimane però destinatario dell'istanza per i casi in cui vi sia un grave pregiudizio derivante dallo stato di protrazione dello stato di detenzione; la nuova formulazione del comma 1 –quater contiene infine un rinvio all'applicazione alle disposizioni di cui all'art. 47, comma 4-bis: peraltro, posto che l'art. 47 non prevede il comma 4-bis l'indicazione è frutto di un evidente refuso, dovendosi necessariamente intendere il rinvio al comma 4, tenuto altresì conto della precedente formulazione del comma; iv) il comma 9 che è soppresso;

-              gli articoli 30 - quater (concessione dei permessi premio ai recidivi) e 50 - bis (concessione della semilibertà ai recidivi) che sono abrogati;

-              il comma 7 –bis dell'art. 58 - quater che è soppresso.
   
L'art. 3 del dl n. 78 modifica l'art. 73 d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309 (e successive modificazioni) aggiungendo il comma 5 – ter che estende l'applicazione del disposto di cui al comma 5 -bis (possibilità di applicare in luogo di pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 54 decreto legislativo n. 274 del 2000) anche nell'ipotesi di altri reati commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, salvo che si tratti di quelli previsti dall'art. 407 comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.

Le altre disposizioni del decreto legge n. 78 - sulle quali qui non ci si sofferma - riguardano i compiti attribuiti al Commissario straordinario del Governo per le infrastrutture carcerarie, la copertura finanziaria e l'entrata in vigore di cui s'è già detto.

Non potrà che essere la concreta attuazione del decreto legge n. 78 a dare evidenza dell'effettività di esso, se non a rimediare, almeno ad alleviare le gravi condizioni di sovraffollamento in cui versano attualmente gli istituti di pena.

E' peraltro indubbio che le modifiche introdotte implicano un diretto maggior coinvolgimento del pubblico ministero (della fase esecutiva) e del tribunale di sorveglianza, sicché le buone intenzioni che informano il decreto legge dovranno fare i conti con l'entità dei rispettivi attuali carichi di lavoro.