Nel caso deciso dal Tribunale di Reggio Emilia si affronta l'istanza risarcitoria dei parenti e degli eredi del conducente di un motociclo che ha perso la vita in un tragico sinistro stradale.
La richiesta di risarcimento dei danni subiti è stata rivolta all'impresa assicuratrice designata dal Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada perché gli attori (i parenti e gli eredi della vittima) hanno affermato che il loro congiunto era stato urtato da una Renault 19 rimasta non identificata, come comprovato dallo specchietto retrovisore rinvenuto in loco e riconducibile a tale tipologia di autovettura. A causa di tale scontro e nel conseguente stato di precario equilibrio, poi, il conducente del motociclo urtava il cordolo divisorio della carreggiata, venendo sbalzato nell'opposta carreggiata ove era stato travolto da altra autovettura che ivi transitava nel proprio senso di marcia.
L'impresa assicuratrice (convenuta) ha resistito alla domanda avversaria, sostenendo che, diversamente da quanto dedotto dagli attori, il conducente del motociclo, che procedeva a velocità troppo elevata, aveva dapprima urtato il cordolo e solo successivamente, e a causa della conseguente sbandata, aveva urtato lo specchietto retrovisore della Renault 19 rimasta non identificata, prima di essere sbalzato nell'opposta carreggiata ove poi era stato investito. Per queste ragioni la convenuta, ritenendo che il sinistro non potesse in alcun modo essere causalmente ricondotto al comportamento dell'auto rimasta non identificata, ha chiesto il rigetto della domanda dei congiunti della vittima.
Il Tribunale di Reggio Emilia ha stabilito che la domanda degli attori non è fondata perché l'istruttoria espletata ha comprovato che i fatti si sono svolti come dedotto dalla parte convenuta. Secondo quanto motivato dal giudice, infatti, tale conclusione si radica non solo sulle deposizioni dei testi indicati dalle parti, ma anche, e senza alcun dubbio, sulla relazione svolta dal consulente del Pubblico Ministero nell'ambito del procedimento penale.
Detta relazione è stata infatti valutata come prova c.d. atipica (prova cioè che non è ricompresa "nel catalogo dei mezzi probatori specificamente regolati dalla legge") nel giudizio civile, pur integrando un atto di indagine proprio del procedimento penale.
Le prove c.d. atipiche sono pienamente ammissibili, "con efficacia probatoria comunemente indicata come relativa a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. od argomenti di prova", perché - come spiegato in sentenza - anche se "nell'ordinamento civilistico manca una norma generale, quale quella prevista dall'art. 189 c.p.p. nel processo penale" , non esiste una norma di chiusura che indichi che le prove sono solo quelle elencate e disciplinate dalla legge.
L'ammissibilità di tali prove è supportata da giurisprudenza e dottrina, "da anni consolidate e unanimi", tenuto altresì conto dell' "oggettiva estensibilità" del contenuto del concetto di produzione documentale, dell' "affermazione del diritto alla prova" e del "correlativo principio del libero convincimento del Giudice". Nella sentenza non mancano esemplificazioni e puntuali citazioni giurisprudenziali al riguardo, che avvalorano la decisione assunta nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale reggino, secondo il quale la risultanza della consulenza resa nel procedimento penale deve ritenersi prova atipica "con il valore di argomento di prova".
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