giovedì 10 dicembre 2015

I DIRITTI DEI DETENUTI IN ITALIA


Walter De Agostino è avvocato penalista in Roma, patrocinante innanzi alla Corte Suprema di Cassazione e alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, si occupa da oltre quindici anni delle garanzie e della tutela dei diritti dei detenuti.

Il 7 dicembre 2015 ha pubblicato con  Keyeditore

I DIRITTI DEI DETENUTI IN ITALIA 
Tutela e garanzie alla luce della CEDU

opera con cui, dopo una breve premessa sulle norme che regolano l'Ordinamento Penitenziario italiano, l'ingresso in carcere e la vita all'interno degli istituti penitenziari, fornisce un pratico contributo sull'evoluzione della tutela dei diritti e delle garanzie dei detenuti alla luce della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali nonché della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo.

L'Autore approfondisce in particolare la portata dell'articolo 3 della CEDU in relazione alla tutela del diritto alla salute dei detenuti, nonché alla problematica del sovraffollamento carcerario in Italia e alla sua incidenza sulle condizioni di vita all'interno degli istituti penitenziari, passando in rassegna gli strumenti di tutela a disposizione del detenuto e del suo difensore.

L'esame in ordine cronologico delle recenti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo permette inoltre di valutare l'influenza che tali pronunce hanno avuto negli ultimi anni nell'ordinamento giuridico italiano, sia dal punto di vista normativo sia da quello giurisprudenziale. Dopo la sentenza pilota Torreggiani del 2013, infatti, il Governo italiano è stato costretto a emanare una serie di provvedimenti legislativi di urgenza al fine di applicare le direttive imposte dalla Corte Europea in materia di rimedi preventivi e compensativi relativamente al trattamento inumano e degradante conseguente al sovraffollamento carcerario, con contestuale riduzione dell'utilizzo della misura cautelare della custodia in carcere e ampliamento della possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione. Il peso della giurisprudenza europea è di palmare evidenza nelle recenti sentenze emesse dalla Corte Suprema di Cassazione e dalla Corte Costituzionale prese in esame dall'Autore.

Ciò che oggi tuttavia emerge è l'inefficacia dei provvedimenti legislativi varati dal Governo italiano in materia di rimedi preventivi e compensativi. Le norme, solo apparentemente chiare, sono infatti ambigue, e lasciano un ampio margine di discrezionalità nella loro applicazione, come hanno dimostrato le prime contrastanti decisioni emesse dai Magistrati di Sorveglianza e dai Tribunali civili.

In attesa di conoscere l'esito del ricorso Mursic c. Croazia, che verrà discusso il 6 gennaio 2016 innanzi alla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e che potrebbe consolidare quanto già enunciato con la sentenza Torreggiani ed altri c. Italia, quanto si sta verificando nei Tribunali italiani rende al momento ineludibile un ritorno "di massa" alla Corte EDU.


venerdì 4 dicembre 2015

venerdì 13 novembre 2015

IL LIBRO DELL'INCONTRO


MARTEDI' 17 NOVEMBRE

A FAHRENHEIT

SI PARLERA' DI



SPAZIO GIALLO


Un progetto promosso da 
BAMBINI SENZA SBARRE:
il primo 
SPAZIO GIALLO 
aperto a SAN VITTORE
perché i bambini possano incontrare 
i genitori detenuti 
in un luogo più accogliente.




venerdì 6 novembre 2015

PARTIRE DALLA PENA




Silvia Cecchi
Giovanna Di Rosa
Tomaso Epidendio


PARTIRE DALLA PENA
Il tramonto del carcere 

Prefazione di 
Luciano Eusebi


liberilibri




Clicca qui per ascoltare l'intervento di Silvia Cecchi e Luciano Eusebi alla trasmissione FAHRENHEIT del 26 ottobre 2015 


sabato 24 ottobre 2015

PARTIRE DALLA PENA



Silvia Cecchi
Giovanna Di Rosa
Tomaso Epidendio


PARTIRE DALLA PENA
Il tramonto del carcere 


se ne parla a Fahrenheit  lunedì 26 ottobre 2015



venerdì 11 settembre 2015

PARTE CIVILE: può impugnare la dichiarazione di estinzione del reato pronunciata dal giudice di pace ex articolo 35?

Con la sentenza n. 33864 depositata il 31 luglio 2015, le sezioni unite penali della corte di cassazione hanno escluso che la parte civile costituita avanti al giudice di pace abbia interesse a impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, ai sensi dell'articolo 35 del decreto legislativo n. 274 del 2000, giudicando inammissibile il proposto ricorso.

La querela che aveva dato origine al giudizio era stata sporta da una donna nei confronti del marito per i reati di percosse e minaccia (articoli 581 e 612 codice penale). Sennonché il giudice di pace, preso atto che l'imputato aveva depositato un assegno circolare di euro 1000 intestato alla persona offesa, accoglieva l'istanza di applicazione del citato articolo 35, pronunciando declaratoria di non doversi procedere per estinzione dei reati in considerazione delle intervenute attività risarcitorie e riparatorie.
La moglie dell'imputato costituitasi parte civile impugnava la sentenza. Il tribunale di Udine rigettava l'appello e confermava le statuizioni del giudice di pace, osservando che, in relazione agli episodi contestati, la somma offerta dall'imputato appariva addirittura eccedente il danno effettivamente subito dalla querelante, considerato che dall'istruttoria svolta era emerso che le "gravi sofferenze lamentate dalla querelante erano in realtà riconducibili, più che alle violenze subite, alla crisi del rapporto coniugale", cioè a una situazione che non poteva essere addebitata unilateralmente all'imputato e che era in ogni caso estranea all'oggetto del risarcimento.

Più che per la vicenda sottostante, la sentenza delle sezioni unite riveste particolare interesse perché fa il punto sui poteri di impugnazione della parte civile, non solo avverso le sentenze del giudice di pace.

Nel caso di specie la corte ha messo innanzitutto in evidenza che il contrasto interpretativo investe un duplice profilo: quello relativo alla possibilità o meno per la parte civile che non abbia proposto ricorso immediato ai sensi dell'articolo 21 del citato decreto legislativo n. 274 di proporre impugnazione non solo agli effetti civili ma anche agli effetti penali e, qualora si escluda tale ultima possibilità, quello relativo alla sussistenza o meno in capo alla parte civile dell'interesse a proporre impugnazione ai soli effetti civili.

Ricostruito il contrasto, le sezioni unite ritengono che per quanto riguarda il giudizio davanti al giudice di pace la persona offesa costituitasi parte civile è legittimata a proporre impugnazione agli effetti della responsabilità civile in virtù della regola generale posta dall'articolo 576 del codice di procedura penale, disposizione applicabile in forza del richiamo di cui all'articolo 2 del decreto legislativo n. 274, secondo il quale nel procedimento davanti al giudice di pace, per tutto quanto non previsto nella normativa speciale si osservano - in quanto applicabili - le norme contenute nel codice di rito.

Tuttavia, ai sensi dell'articolo 38 del decreto legislativo n. 274, in caso di procedimento instaurato con il ricorso immediato previsto dall'articolo 21 dello stesso decreto,  la parte civile ha altresì facoltà di proporre impugnazione anche agli effetti penali avverso le sentenze relative a tutti i reati rientranti nella competenza del giudice di pace. Questa disposizione – osserva la corte – "mentre da un lato amplia la facoltà di impugnazione per la parte civile, dall'altro introduce una limitazione, in quanto circoscrive l'ampliata facoltà d'impugnativa ai soli casi, tassativamente indicati, in cui è ammessa l'impugnazione da parte del  pubblico ministero, cioè nei casi previsti dall'articolo 36 (sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria e sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa).".

Dalla disciplina integrata degli articoli 36 e 38 del citato decreto legislativo discende pertanto il principio secondo il quale l'articolo 576 del codice di procedura penale è applicabile al procedimento davanti al giudice di pace nelle ipotesi di citazione a giudizio dell'imputato ad opera del pubblico ministero (articolo 20 del decreto legislativo n. 274), mentre l'articolo 38, relativo al solo ricorso immediato, estende la stessa facoltà impugnativa, anche agli effetti penali.

Ciò posto, la corte verifica se il potere di impugnazione della parte civile, con particolare riferimento alle sentenze di proscioglimento, incontri limitazioni sotto il profilo dell'interesse "come diretta conseguenza del principio di economia processuale di cui all'art. 568, comma 4, cod. proc. pen.".

Nella pronuncia in commento si richiama in proposito l'insegnamento giurisprudenziale secondo il quale l'interesse a proporre impugnazione deve essere apprezzabile non solo in termini di attualità, ma anche di concretezza, sì che dalla modifica del provvedimento impugnato possa derivare l'eliminazione di qualsiasi effetto pregiudizievole per la parte che ne invoca il riesame.

Nel caso di specie - prosegue la corte - l'interesse all'impugnazione della parte civile è legato all'eventuale efficacia vincolante del giudicato penale nel giudizio civile.

L'articolo 652 del codice di procedura penale prevede espressamente, al comma 1, che solo "la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento" abbia efficacia di giudicato, "quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell'interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l'azione in sede civile a norma del'articolo 75, comma 2"; mentre il comma 2 dello stesso articolo attribuisce la stessa efficacia alla "sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell'articolo 442, se la parte civile ha accettato il rito abbreviato".

Tale disciplina, relativa  agli effetti della sentenza penale nell'eventuale giudizio civile con specifico riferimento alle sentenze di proscioglimento, costituisce una deroga - osserva la corte - al generale principio di autonomia e di separazione delle diverse giurisdizioni, venuto meno con l'entrata in vigore del codice del 1989, sicché coerentemente la giurisprudenza di legittimità, in sede sia penale sia civile, ha escluso la possibilità di applicazione analogica della stessa oltre i casi espressamente previsti.

E' stata infatti esclusa l'efficacia delle pronunce di improcedibilità, sia di quelle emesse, per ragioni anche di merito, prima del dibattimento (articoli 425 e 469 codice di procedura penale), sia di quelle di carattere processuale (per mancanza di una condizione di procedibilità o per estinzione del reato) emesse in esito al dibattimento (articoli 529 e 531 codice di procedura penale).

La regola di cui all'articolo 652 del codice di procedura penale deve essere infatti interpretata nel senso che la formula assolutoria debba poggiare su di un effettivo e positivo accertamento circa l'insussistenza del fatto, o l'impossibilità di attribuirlo all'imputato o riguardo alla circostanza che il fatto sia stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima. L'effetto di giudicato è quindi collegato al concreto effettivo accertamento dell'esistenza di una di queste ipotesi. Ed è in base a tale interpretazione che è stato individuato l'interesse della parte civile a impugnare le sentenze di proscioglimento negli specifici casi di efficacia extrapenale del giudicato, "poiché solo in tali casi la pronuncia preclude il perseguimento degli interessi della parte privata anche in sede civile.".


Così definiti i confini del potere di impugnazione della parte civile, le sezioni unite risolvono la questione sottoposta al loro vaglio escludendo l'interesse della parte civile a impugnare agli effetti sia penali sia civili la sentenza dichiarativa di estinzione del reato per condotte riparatorie ex articolo 35 del decreto legislativo n. 274. Questa pronuncia si limita infatti ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato, con una valutazione operata allo stato degli atti, senza alcuna istruttoria e con sentenza predibattimentale; non è quindi idonea a rivestire autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non può produrre pertanto alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile.

Spiega infatti la corte che nel caso di specie v'è, da un lato, l' argomento di natura "letterale e sistematica"  che fa riferimento all' articolo 38 del decreto legislativo n. 274, che preclude l'impugnazione della parte civile anche agli effetti penali se la citazione a giudizio non è avvenuta a seguito di ricorso a'sensi dell'articolo 21; e dall'altro, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che limita efficacia extrapenale del giudicato alle sole ipotesi previste dall'articolo 652 del codice di procedura penale, da cui deriva la statuizione circa l' assenza di interesse in capo alla parte civile all'impugnazione della sentenza dichiarativa di estinzione del reato a'sensi dell'articolo 35 del menzionato decreto.  Tale pronuncia, chiarisce la corte, pur contenendo "una valutazione in ordine all'entità dei danni subiti dalla parte civile", viene adottata in base a una norma (il citato articolo 35) "tesa a perseguire la ricomposizione della cd. 'pace sociale', dal punto di vista penalistico, con uno sguardo anche alla posizione della parte offesa, collocata tuttavia in una posizione di 'lateralità' processuale". Ciò che, secondo la corte, "emerge dal fatto che nel correlare l'estinzione del reato alla valutazione di congruità del giudice di pace, la norma presuppone che siano state sentite le parti, ma non che sia stato acquisito il consenso della persona offesa, la cui eventuale mancanza non si pone, pertanto, quale condizione ostativa all'operatività del meccanismo estintivo."

Come a dire che "la valutazione di congruità delle condotte risarcitorie e riparatorie poste in essere dall'imputato"  - nel caso di specie, l'assegno circolare di 1000 euro intestato alla persona offesa depositato al giudice di pace -  si muove su "due binari paralleli, non alternativi tra loro, ma che hanno lo stesso convergente obiettivo finale":  la soddisfazione delle esigenze compensative inerenti il profilo civilistico e di quelle retributive e preventive concernenti gli obiettivi di prevenzione e repressione generale e speciale nel settore penale, nell'ottica dello scopo finale sia di ridimensionare il fatto reato attraverso una rielaborazione del conflitto tra autore e vittima, così favorendo la ricomposizione della lacerazione creatasi nel tessuto sociale, sia di deflazionare i processi penali.

Nel disegno del legislatore, cioè, il positivo apprezzamento ai fini satisfattivi della idoneità complessiva della condotta riparatoria dell'imputato "prescinde /…/ dall'integrale risarcimento del danno" , devoluto, se del caso, alla competenza del giudice civile, mentre è privilegiato "il perseguimento  in via anticipata degli interessi pubblicistici", legati al processo penale.

La parte civile che non ritenesse esaustivo il risarcimento offerto dall'imputato, potrà comunque adire il giudice civile, rispetto al quale la pronuncia penale, in base ai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità e richiamati nella sentenza in commento, non avrà incidenza alcuna, "in quanto la congruità del risarcimento, operata allo stato degli atti ai soli fini dell'estinzione del reato, lascia comunque impregiudicata la possibilità di un nuovo e completo accertamento circa l'esistenza e l'entità del danno in favore della persona offesa".

La conclusione è conforme al fatto che le sentenze di proscioglimento per estinzione del reato non statuiscono sulla responsabilità dell'imputato e pertanto non possono avere alcun effetto negativo per la parte civile se non contengono alcun capo del dispositivo relativo all'accertamento ed alla quantificazione del danno, che rimane sommariamente delibato ai soli fini di cui all'articolo 35 del decreto legislativo n. 274 del 2000.

Emanuela Strina, avvocato in Milano


Clicca qui per leggere la sentenza delle sezioni unite n. 33864

martedì 28 luglio 2015

FALLIMENTO: comportamenti illegittimi degli organi sociali, danno risarcibile e criteri di liquidazione.


Con la sentenza n. 9100 del 6 maggio 2015 la cassazione affronta a sezioni unite civili il tema dei criteri di liquidazione del danno subito dalla curatela che esercita l'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore.

Le considerazioni svolte nella pronuncia valgono anche per i casi in cui la curatela si costituisca parte civile nei giudizi penali per bancarotta, e ciò sia quando il giudice decida con condanna generica (articolo 539, comma 1, codice di procedura penale) rinviando alla sede civile per la liquidazione del danno, sia quando provveda direttamente alla liquidazione.

Che si tratti di una causa civile o di una penale, infatti, all' affermazione di responsabilità dell' amministratore (e, più in generale, degli organi sociali) consegue la questione di come operare la quantificazione del danno verificatosi in relazione ai comportamenti illegittimi oggetto di giudizio.

Le sezioni unite statuiscono che "l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento".

Nei giudizi di bancarotta, la curatela che si costituisca parte civile è obbligata a far riferimento al capo di imputazione e a mettere in evidenza il rapporto di causalità esistente fra le condotte contestate all'imputato (o agli imputati) e il pregiudizio subito dalla società fallita.

Una volta individuato il danno, il criterio da adottare ai fini della liquidazione del medesimo presuppone "l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell' amministratore". Esemplificando, nei casi in cui si debba quantificare il danno conseguente alla distrazione di beni aziendali, il valore di tali beni costituisce criterio idoneo a orientare la decisione del giudice.

Ma nelle ipotesi in cui la condotta contestata (o l'inadempimento addotto in sede civile) si riferisca alla bancarotta c.d. documentale (o alla mancanza e/o irregolare tenuta di scritture contabili della società), il danno che ne deriva non può essere individuato e liquidato ex se "in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare", poiché tale criterio potrà essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, "ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto".

Questo è l'approdo cui è giunta la corte dopo aver ripercorso le tappe via via raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità. Come è ricordato nella sentenza in esame, infatti, la possibilità che il danno risarcibile sia identificato nella differenza tra il passivo e l'attivo accertati in sede fallimentare era stata affermata in epoca risalente (Cass. n. 1281 del 1977), in un caso nel quale all'amministratore era stato contestato di aver violato il divieto di compiere nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, consistita nella perdita di oltre un  terzo del capitale sociale e nella riduzione di questo al di sotto del minimo legale. Anni dopo Cass. n. 6493 del 1985 era tornata ad approvare l'utilizzo di tale criterio in una fattispecie in cui l'addebito mosso agli amministratori consisteva nel non aver tenuto la contabilità sociale o nell'averla tenuta in modo sommario e non intellegibile.

Nel decennio successivo, la giurisprudenza mutava orientamento, sulla scorta delle critiche svolte dalla dottrina riguardo l'adozione del criterio differenziale: Cass. n. 9252 del 1997 afferma infatti che il danno che gli amministratori e i sindaci sono tenuti a risarcire quando abbiano violato o non vigilato sul dovere di non intraprendere nuove operazioni in presenza di una causa di scioglimento della società, non si identifica automaticamente nella differenza tra passivo e attivo accertati in sede fallimentare, ma possa essere commisurato a tale differenza, in mancanza di prova di un maggior pregiudizio, solo se da detta violazione sia dipeso il dissesto economico ed il conseguente fallimento della società. Cass. n. 10488 del 1998  perviene alla conclusione che, in azioni di tal genere, il danno non possa essere liquidato alla stregua del citato criterio differenziale, ma vada determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle  violazioni contestate.

Quest'ultimo orientamento veniva poi confermato da Cass. n. 1375 del 2000 che precisava come, in casi simili, il danno potesse essere rappresentato dalla differenza tra passivo e attivo patrimoniale della società solo se il dissesto economico e il conseguente fallimento si fossero verificati per fatto imputabile agli amministratori, liquidatori o sindaci convenuti in giudizio; e che non bastava a configurare la responsabilità di costoro che vi fosse stato un disavanzo fallimentare, poiché occorreva dimostrare la specifica violazione dei doveri loro imposti dalla legge, dato che la prova della violazione di tali obblighi non avrebbe potuto giustificare la condanna al risarcimento del danno se il curatore non avesse dato prova che quelle violazioni avevano cagionato un pregiudizio alla società.

La giurisprudenza successiva seguiva quest'ultimo filone decisionale. Cass. nn. 2538 e 3032 del 2005 insistevano infatti nell'affermare che il danno in questione non poteva essere commisurato alla differenza tra passivo e attivo accertati in sede concorsuale sia perché lo sbilancio patrimoniale della società insolvente avrebbe potuto avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia perché questo criterio contrastava con il principio civilistico che impone di accertare l'esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima e il danno. In queste pronunce, è tuttavia precisato che il criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l'impossibilità di ricostruire i dati con l'analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili ai comportamenti degli organi sociali; in tal caso però il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonché la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto, soprattutto quando la condotta non sia temporalmente vicina all'apertura della procedura concorsuale.

Nel corso dell'anno 2011 vi sono state invece due pronunce (Cass. nn. 5876 e 7606) in cui, pur muovendosi dalla premessa secondo cui nell'azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all'attore dare prova dell'esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, si è reputato che si verifichi un'inversione dell'onere della prova quando l'assoluta mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità; in questo caso – si è aggiunto – la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale.

Le sezioni unite civili sono intervenute nel caso in cui la curatela adduceva la mancanza o irregolarità della contabilità sociale, intesa quale inadempimento del convenuto idoneo a porsi come causa del danno di cui pretendeva il risarcimento. Proprio su questa allegazione si incentra la motivazione della corte, che sostiene come la mancanza o l' irregolarità della contabilità sociale "non sono legate da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare. Ed allora il fatto che l'amministratore sia venuto meno ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione della contabilità non giustifica che venga posto a suo carico l'onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale dall'inadempimento, da parte sua, di ulteriori ma non meglio specificati obblighi."

Secondo la corte, poi, non rileva che il mancato rinvenimento della contabilità potrebbe impedire al curatore di individuare altri eventuali inadempimenti ascrivibili all'amministratore, potenzialmente idonei – quelli sì – a porsi come causa del deficit patrimoniale fatto registrare dalla società fallita. L' impossibilità di stabilire ciò di cui gli organi della società fallita potrebbero essersi resi responsabili non giustificherebbe infatti comunque la proposizione alla cieca di un'azione di responsabilità, "e tanto meno il conseguente addebito agli amministratori di un deficit patrimoniale che nulla in tal caso consentirebbe di porre in rapporto di causa ad effetto con comportamenti dell'amministratore impossibili persino da individuare."

Postulare infatti che "l'amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società solo perché non ha correttamente adempiuto l'obbligo di conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare, equivale, in tale situazione, ad attribuire al risarcimento del danno così identificato  una funzione palesemente sanzionatoria (che, in ipotesi di condotta dolosa, rischierebbe almeno in parte di sovrapporsi alle sanzioni penali già contemplate dagli artt. 216, primo comma, n. 2, e 223 l.f.)."

La corte osserva al riguardo che anche se negli ultimi decenni sono state introdotte disposizioni volte a dare un connotato latu sensu sanzionatorio al risarcimento, "non lo si può ammettere al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dal secondo comma dell'art. 25 Cost., nonché dall'art. 7 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali."

Resta fermo che, seguendo i principi generali, ove non fosse possibile arrivare a una quantificazione e una prova precisa del danno riconducibile a un determinato inadempimento (o condotta contestata), sarà tuttavia possibile chiedere che il giudice provveda alla liquidazione del danno in via equitativa, invocando l'articolo 1226 del codice civile. Il che non potrà però tradursi  nell'applicazione di un criterio arbitrario e richiede che siano comunque indicate le ragioni che non hanno consentito di accertare gli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto, nonché alla plausibilità logica del ricorso a detto criterio in rapporto alle circostanze del caso concreto, come si erano espresse le citate sentenze del 2005, nn. 2538 e 3032.

Emanuela Strina, avvocato in Milano

clicca qui per leggere la sentenza delle sezioni unite

clicca qui per leggere l'ordinanza di rimessione



venerdì 10 luglio 2015

SOSPENSIONE CON MESSA ALLA PROVA: UN CASO DI PROROGA DAL TRIBUNALE DI MILANO


La legge n. 67 del 2014, entrata in vigore il 17 maggio 2014, ha introdotto l'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (v. post 22 maggio 2014).

Le normativa prevede che il giudice stabilisca il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie imposti devono essere adempiuti.

Come previsto dall'articolo 464 quinquies, comma 1, codice di procedura penale (introdotto dall'articolo 4 della l. n. 67), il termine può essere prorogato una sola volta e solo per gravi motivi, su istanza dell'imputato.

Ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, il giudice può modificare le prescrizioni originarie, ferma restando la congruità delle nuove prescrizioni rispetto alle finalità della messa alla prova.

Pensando che possa suscitare interesse, pubblichiamo l'ordinanza del giudice di Milano che, dato analiticamente conto della normativa applicabile, ha prorogato il periodo di sospensione del procedimento disposto con il precedente provvedimento e ha modificato le prescrizioni già imposte limitatamente al tipo di prestazione non retribuita e all'ente di riferimento, tenuto conto dell'infortunio sul lavoro subito dall'imputato, che a causa di questo era stato impossibilitato a eseguire il programma di trattamento originariamente elaborato.

Clicca qui per essere rinviato al post del 22 maggio 2014
Clicca qui per scaricare l'ordinanza di proroga



giovedì 18 giugno 2015

NON PUNIBILITA' PER PARTICOLARE TENUITA' DEL FATTO: l'intervista a Chiara Valori

Il decreto legislativo n. 28 del 16 marzo 2015 ha introdotto la cosiddetta non punibilità per particolare tenuità del fatto. Si tratta di un intervento normativo che si inserisce nel più ampio programma della delega al Governo e che nella previsione del legislatore dovrebbe avere effetti positivi determinando una riduzione sia del contenzioso pendente sia della popolazione carceraria.

Le norme recentemente introdotte prevedono che il pubblico ministero possa chiedere al giudice per le indagini preliminari l'archiviazione per particolare tenuità del fatto quando ne ricorrano le condizioni, ma è contemplata anche una pronuncia predibattimentale e una di proscioglimento all'esito del dibattimento.

Parliamo di questo nuovo istituto con CHIARA VALORI, giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano.

Per entrare subito nel vivo dell'argomento, poniamo una prima questione che attiene all'efficacia deflattiva del nuovo istituto sia sul piano della riduzione del numero dei procedimenti pendenti rispetto a molte ipotesi di reato, non soltanto bagatellari, sia su quello della riduzione della popolazione carceraria. Vero che il decreto legislativo n. 28 è in vigore soltanto dal 2 aprile 2015, ma viene da chiedersi se sia prevedibile che i preannunciati effetti deflattivi si possano davvero produrre.
Non ho dati statistici alla mano, rispondo dunque sulla base dell'esame delle disposizioni contenute nel decreto legislativo recentemente emesso e delle proiezioni rispetto a quello che sta accadendo al momento in fase di prima applicazione della nuova disciplina.

Il nuovo istituto copre una fascia di casi per i quali erano già previste misure alternative alla detenzione e benefici, per cui le persone non entreranno in carcere non per l'applicazione delle norme sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto, ma per la preesistente normativa.

Sul piano invece della riduzione dei procedimenti pendenti?
Sì, come dicevo, se difficilmente la particolare tenuità avrà effetto deflattivo sull'ingresso in carcere, sui condannati, questo effetto potrebbe esserci sui procedimenti pendenti, anche se una serie di ostacoli alla rapida definizione di questi fascicoli fa ritenere che ne verrà limitata l'applicazione a una fascia molto residuale di ipotesi.

Tra altro, mi sembra di fatto che sia questo l'orientamento prevalente della procura, della sezione gip e dei colleghi del dibattimento che si occuperanno dei procedimenti per citazione diretta.

Ha accennato a "difficoltà procedurali", praticamente cosa succede?
Per quanto riguarda i gip, la tendenza che registro è quella di continuare ad archiviare per motivi di merito e non già per la particolare tenuità del fatto: le complicazioni dell'iter procedurali sono tali e tante (le notifiche, la possibilità di proporre opposizione senza indicare nuove prove, di fatto motivando con "non sono d'accordo") rischiano di aumentare il nostro lavoro (emissione di ordinanze, fissazione di udienza, notifiche) e scoraggiano di fatto l'applicazione del nuovo istituto.

Quindi, paradossalmente, un'archiviazione "classica" per motivi di merito potrebbe rivelarsi più semplice.
Sì. In effetti è così, speravamo che la delega costituisse una base normativa che tutelasse da provvedimenti un po' largheggianti per cui si sarebbe potuto archiviare anche in casi in cui il reato da un punto di vista formale c'è ma si tratta di ipotesi bagatellari, e quindi, in sostanza, "la spesa non vale l'impresa" e non avrebbe senso procedere. In realtà la procedura è così complicata che nei fatti continueremo ad archiviare con la stessa motivazione che adottavamo prima, magari un po' tirata, ma che affronta il merito, e non già la particolare tenuità.

Il nuovo istituto non è poi ininfluente per l'indagato, non è un'uscita dal procedimento o dal processo priva di conseguenze.
Se si considerano fatti che integrano ipotesi di reato, rispetto ai quali si sarebbe potuto procedere, si tratta di una pronuncia meno deteriore, anche se rimane un'iscrizione nel casellario. Un pregiudizio c'è, è comunque un accertamento del fatto, non ci sarà più l'incensuratezza, ma è sempre meglio di una condanna. Dipende dall'ottica in cui ci si muove.

Mentre sulla vittima, che impatto ha il nuovo istituto?
Per la vittima è una giustizia un po' a metà, non ha soddisfazione subito. Essendo però stata introdotta la possibilità di far valere l'accertamento del fatto in sede civile, parte avvantaggiata; rimango peraltro convinta che la disposizione che prevede l'efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile abbia dei profili di incostituzionalità che non tarderanno a emergere.

Si potrebbe dire che il legislatore tenda a rimandare alla sede civile la questione risarcitoria: si toglie un procedimento dal settore penale per crearne uno in quello civile.
Sì, però si deve tener presente che la querela ha costi diversi rispetto all'azione civile, e che non sempre dalla querela nasce un'azione civile.

Certo, poi passa il tempo e non sempre la vittima rimane interessata a perseguire il reo per avere il risarcimento; e c'è sempre da valutare la possibilità di eseguire un'eventuale condanna, soprattutto se il reo è nullatenente.
Proprio così.

Par di capire che l'applicazione della nuova normativa interesserà ipotesi davvero residuali.
Penso che saranno soprattutto le ipotesi da giudizio monocratico. E' prevedibile che non saranno molte le archiviazioni richieste per la particolare tenuità del fatto.

E' possibile che il giudice di pace si ponga il problema di applicare la nuova disciplina, ampliando ulteriormente le ipotesi già previste dalla disciplina di settore.

C'è in effetti il rischio che la nuova disciplina scontenti un po' tutti.

Insomma, la ricettazione del trapano alla fiera degli Oh bej! Oh Bej! rimane fuori dal campo di applicazione.
Ma sì, perché le nuove disposizioni lasciano fuori una serie di reati c.d. da strada, quali la ricettazione e i furti aggravati, perché sono stabiliti limiti di pena molto rigidi, come appunto la ricettazione; mentre includono una serie di reati che hanno un'intrinseca abitualità (quali i reati ambientali e/o edilizi che sono caratterizzati da una permanenza ontologica) e che debbono invece essere esclusi per altre ragioni.

Un primo esame delle norme farebbe pensare al ruolo propulsore del pubblico ministero nell'applicazione dell'articolo 131-bis codice penale con la richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto. Sinora però, sembra di notare un maggiore interessamento nella fase dibattimentale.
Sì, perché la difesa ne sollecita l'applicazione. Il luogo vero è però quello della richiesta di archiviazione, anche se a me non è ancora capitato di trattarla. Immagino che la procura si stia organizzando.

Ha già avuto modo di applicare il nuovo istituto?
Personalmente no. Le prime applicazioni sono avvenute nella fase dibattimentale.

Nel momento in cui dovesse arrivare una richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, quale sarebbe il ruolo del giudice per le indagini preliminari?
Da un punto di vista sostanziale, mi sembra che la nuova legge lasci spazio a una discrezionalità molto ampia. Per ora, si possono rilevare fra i magistrati atteggiamenti molto diversi: da chi applicherà il nuovo istituto ogni volta che potrà, a chi invece ritiene che esso sia più difficilmente applicabile dati i limiti posti dalla legge.

Molto dipenderà dunque dalla sensibilità e dal criterio di interpretazione dei singoli?
Sì, e sotto questo aspetto, auspico che l'intervento di nomifiliachia della corte di cassazione possa creare degli orientamenti comuni, così da rendere possibile l'individuazione di una casistica di generale riferimento.

In effetti, da altro punto di vista non sono ostile al nuovo istituto perché obiettivamente, in alcuni casi, può essere strumento di giustizia sostanziale, anche se sono casi residuali, che erano risolti con la discrezionalità di cui era già dotata la magistratura in relazione all'esclusione dell'elemento soggettivo o all'archiviazione.

Lasciando da parte un discorso strettamente tecnico, per uscire dai problemi del sistema giustizia siamo stati tenuti sospesi a lungo rispetto all'approvazione di una nuova amnistia o indulto; l'ultimo indulto risale a circa dieci anni fa. Pare ora che sia stata intrapresa una strada diversa. Qual è la sua idea al riguardo?
Non sono generalmente d'accordo sui provvedimenti di amnistia e indulto, ma mi rendo conto che in determinati contesti siano necessari; non mi sembra però che vi siano termini di paragone con la non punibilità per particolare tenuità.

L'amnistia e l'indulto hanno quanto meno il vantaggio di azzerare il carico esistente e di salvaguardare il principio di obbligatorietà dell'azione penale; mentre con la nuova normativa si è introdotto un vulnus a questo principio.

Quello che voglio dire è che la deflazione vera si fa con la depenalizzazione, non si fa con l'amnistia, non si fa con l'indulto, non si fa con provvedimenti come quello con la nuova normativa per particolare tenuità del fatto.

In effetti sembra che nel nostro ordinamento la depenalizzazione rimanga sulla carta.
E' così. L'alternativa vera sarebbe stata quella di dare attuazione alla delega sulla depenalizzazione, mentre molte delle disposizioni contenute nella delega non possono essere operative: l'articolo 2 del decreto legge n. 463 del 1983 (sull'omesso versamento delle ritenute previdenziali) è il caso più emblematico perché siamo pieni di fascicoli, ma vi sono anche ipotesi di reati che rispondono più a interessi privatistici che a interessi pubblicistici e che potevano essere (già) depenalizzati.

Il vulnus all'obbligatorietà dell'azione penale cui ho fatto prima cenno è un altro tema: è ormai un dogma superato o è un principio che ha ancora, nel nostro ordinamento, una sua necessità di essere?
Penso che non sia per niente un dogma superato, penso anzi che sia un corollario necessario dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel senso che è la garanzia per cui tutti debbono poter aver accesso alla giustizia e per cui sia assicurata la parità di trattamento di fronte alla legge. E' certo che ci sono delle storture evidenti; non possiamo negare che rispetto a una serie di ipotesi di reato, poi non si procede.

Oppure la procura, secondo gli orientamenti, ha la tendenza a mandar tutto a giudizio.
Ma non è vero, è vero invece che vi sia la tendenza a selezionare alcuni reati che reputa di più grave allarme sociale e ad abbandonarne poi degli altri.

Questo non è sbagliato in senso assoluto.
E' vero, ma non è corretto che questo sia rimesso alla decisione arbitraria di un pubblico ministero. Avremmo bisogno di indicazioni forti da parte del legislatore in modo che vi sia una regola che tutti debbano recepire; non che, come invece accade, alcune procure non procedano, per esempio, per i reati ambientali, così da consentire la devastazione del territorio. Ecco che, allora, il principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale rimane una garanzia irrinunciabile.

E la nuova normativa incide sull'obbligatorietà dell'azione penale?
Secondo me, sì. E' vero che la Corte Costituzionale ha già dato il suo benestare, e ne prendiamo atto. Però a mio avviso è un segnale preoccupante e penso che per gli obiettivi che si era prefisso il legislatore, avrebbe potuto trovare strumenti migliori e diversi.

V'è poi da valutare, da ultimo, il potere discrezionale del giudice nel riconoscere le caratteristiche della particolare tenuità nel fatto che è sottoposto al suo vaglio.
Le ipotesi previste dalla legge sono di fatto molto ampie e offrono una notevole discrezionalità al giudice.

La battuta finale che vorrei fare è che "non si fanno le nozze coi fichi secchi": questa disciplina ha dei costi notevoli, soprattutto con riferimento alle notifiche che debbono essere effettuate nel caso in cui si richieda l'archiviazione per particolare tenuità.

Penso quindi che la procura dovrà organizzarsi per questo incombente, dedicando a esso risorse umane specificamente a ciò deputate; diversamente, è prevedibile che rinunci a richiedere l'archiviazione per particolare tenuità e continui a chiederla per i motivi sin qui addotti.

Sarà invece soprattutto davanti al giudice monocratico, a dibattimento, che potrà emergere il maggior numero di applicazioni della nuova norma, su sollecitazione del difensore, che in quella fase ha la possibilità di fare con il proprio assistito valutazioni più compiute in relazione al singolo caso.

Andrea Del Corno con Emanuela Strina, avvocati in Milano




martedì 12 maggio 2015

LA NON PUNIBILITA’ PER PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO

Il decreto legislativo del 16 marzo 2015 n. 28 è rubricato "Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67." ed è in vigore dal 2 aprile 2015.

La legge n. 67 delegava - fra altro - il Governo "ad adottare uno o più decreti legislativi per la riforma del sistema delle pene", con le modalità e nei termini ivi previsti, nel rispetto di principi e criteri direttivi come quello di cui all'articolo 1, lettera m): "escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l'esercizio dell'azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale".

In attuazione della delega, è stato dunque emesso il decreto legislativo n. 28 con il quale è stata esclusa la punibilità per i reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, quando, per la modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

La caratteristica del nuovo istituto dell'irrilevanza per particolare tenuità comporta comunque l'accertamento della sussistenza di un fatto tipico, costitutivo di reato, ma da ritenere non punibile in ragione di più generali principi di proporzione in considerazione della tenuità dell'offesa, nonché di economia processuale.

Dal punto di vista sostanziale, l'articolo 1 del decreto attuativo prevede i requisiti e definisce l'ambito applicativo del nuovo istituto della particolare tenuità del fatto.

In particolare, il primo comma dell'articolo 131 bis del codice penale riprende il dettato dell'articolo 1), lettera m) della legge delega n. 67 più sopra riportato, ma chiarisce che l'esclusione della punibilità può intervenire solo quando "l'offesa è di particolare tenuità" per la modalità della condotta e per l' esiguità del danno o del pericolo.

Nel secondo comma è precisato quando "l'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità", e cioè quando "l'autore ha agito per motivi abbietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o lesioni gravissime di una persona".

Nel primo comma dell'articolo 131 bis v'è il riferimento anche all'altro requisito ai fini del giudizio sulla particolare tenuità del fatto, e cioè la "non abitualità" del comportamento. Nel terzo comma è specificato che "il comportamento è abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia  commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate".  

Nella Relazione allo schema di decreto si mette in evidenza come in questo caso il legislatore abbia utilizzato un concetto, quello della "non abitualità" del comportamento,  diverso da quello della "occasionalità" del fatto. Il che farebbe ipotizzare la possibilità che un "precedente" giudiziario potrebbe non precludere di per sé il riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza degli altri presupposti.  Sarà l'interprete a precisare via via il contenuto del termine in questo caso prescelto, anche se  l' "abitualità" ostativa pare essere individuata in quella da accertare in relazione al reato oggetto del giudizio, nel caso in cui quest'ultimo possa essere inserito in un rapporto di seriazione con uno o più altri episodi criminosi (ad esempio, il "furto in sé minimo ma che risulti costituire un anello in una sorta di catena comportamentale").

Il penultimo comma dell'articolo 131 bis riguarda la determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma, in relazione alla quale non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest'ultimo caso non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all'articolo 69. Come è stato fatto notare nella Relazione allo schema di decreto, "siffatto criterio non riesce ad eliminare quel margine di discrezionalità giudiziale che si presenterà tutte le volte in cui, concorrendo circostanze eterogenee di quel tipo, sarà giocoforza procedere al previo giudizio di bilanciamento. Né può eliminare la possibile incongruenza che si presenterà tutte le volte in cui una di quelle circostanze, pur presente e come tale da considerare ai fini della determinazione dei limiti di pena, sarebbe però destinata a soccombere per la prevalenza di circostanze ad effetto comune di segno opposto.".

L'ultimo comma completa l'individuazione dell'ambito applicativo, precisando che l'istituto può trovare applicazione "anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante".

I tre articoli successivi al primo sono dedicati agli aspetti processuali della nuova disciplina.
L'articolo 2  è rubricato "Modifiche al codice di procedura penale" e include le disposizioni che riguardano specificamente l'eventualità che il pubblico ministero richieda l'archiviazione per particolare tenuità del fatto.

E' previsto infatti che all'articolo 411 (Altri casi di archiviazione) sia aggiunta - al primo comma - l'ipotesi in cui la persona sottoposta alle indagini non sia punibile ai sensi dell'articolo 131 bis del codice penale per particolare tenuità del fatto e che sia aggiunto il comma 1 bis, secondo il quale se l'archiviazione è richiesta per particolare tenuità del fatto, il pubblico ministero deve darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, precisando che nel termine di dieci giorni, possono prendere visione degli atti e presentare opposizione. Non è prevista la notifica dell'avviso al difensore della persona sottoposta alle indagini nemmeno se la nomina risulti dagli atti del pubblico ministero.

Nell'opposizione debbono essere indicate, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta. Diversamente da quanto previsto all'articolo 410, non è prescritto che la persona offesa dal reato indichi l'oggetto dell'investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova.

Se l'opposizione non è inammissibile, il giudice procede ai sensi dell'articolo 409, comma 2 – e cioè fissando udienza camerale e dandone avviso al pubblico ministero, alla persona sottoposta alle  indagini e alla persona offesa dal reato – e, dopo aver sentito le parti, se accoglie la richiesta, provvede con ordinanza. In mancanza di opposizione, o quando questa è inammissibile, il giudice provvede de plano e, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato. Nei casi in cui non accoglie la richiesta il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dell'articolo 409, comma 4 e 5, e cioè indicando eventuali necessarie ulteriori indagini  e fissando il termine per il compimento di esse, ovvero disponendo che il pubblico ministero formuli l'imputazione entro dieci giorni.

L'articolo 3 del decreto legislativo n. 28 è rubricato "Disposizioni di coordinamento processuale" e stabilisce modificazioni al codice di procedura penale che riguardano rispettivamente la pronuncia di proscioglimento prima del dibattimento e l'efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità.

Riguardo alla pronuncia ai sensi dell'articolo 469, viene aggiunto, dopo il comma 1, il comma 1 bis in cui è previsto che la sentenza di non doversi procedere possa essere pronunciata anche quando l'imputato non sia punibile ai sensi dell'articolo 131 bis del codice penale, previa audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare.

In relazione all'efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità, dopo l'articolo 651, viene aggiunto l'articolo 651 bis, che prevede l'efficacia di giudicato della pronuncia rispetto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale. Per avere efficacia di giudicato, la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto deve essere irrevocabile ed essere pronunciata a seguito di dibattimento, ovvero a seguito di giudizio abbreviato, a norma dell'articolo 442, "salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato".

I primi commentatori della nuova normativa hanno già delineato i termini di una questione di legittimità costituzionale in relazione all'efficacia di giudicato della pronuncia di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, tenuto conto del contenuto della delega di cui al citato articolo 1, lettera m) che dispone l'esclusione di punibilità in commento "senza pregiudizio per l'esercizio dell'azione civile per il risarcimento del danno".

Va evidenziato inoltre che la prevista efficacia di giudicato della pronuncia in sede penale si realizza pure se il danneggiato dal reato costituitosi parte civile non abbia accettato il giudizio abbreviato e non si sia espressamente opposto all'efficacia dell'eventuale pronuncia di proscioglimento per particolare tenuità.

L'efficacia di giudicato della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto interferisce poi con il principio di autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale, sancito al comma 2 dell'articolo 75 del codice di rito, prescindendo dalla partecipazione al giudizio penale del danneggiato dal reato.

L'articolo 4 del decreto legislativo n. 28 riguarda le modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2012, n. 313, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, e prevede che la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità sia iscritta, o non iscritta nel certificato del casellario richiesto dall'interessato, come se fosse una sentenza di condanna. Infatti è disposto i) che siano iscritti nel casellario giudiziale i provvedimenti che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell'articolo 131 bis del codice penale e che detta iscrizione sia eliminata trascorsi dieci anni dalla pronuncia; ii) che nel certificato generale del casellario giudiziale richiesto dall'interessato non siano riportati i provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell'articolo 131 bis del codice penale, quando la relativa iscrizione non sia stata eliminata.

* * *


La scelta del legislatore appare chiaramente improntata all'esigenza di ridurre il numero di procedimenti con un istituto che, sul piano della politica criminale, rappresenta il primo colpo di piccone al caposaldo dell'obbligatorietà dell'azione penale. Siamo all'esordio della nuova disciplina e sarà da vedere come essa verrà recepita e applicata dalle Procure nazionali, ma di fatto è stato introdotto un primo criterio di discrezionalità nell'esercizio dell'azione penale.

Dal punto di vista della difesa della persona sottoposta alle indagini, o dell'imputato, rimane da valutare se una pronuncia di proscioglimento per particolare tenuità del fatto sia o meno conveniente, tenuto conto che una sentenza di questo tipo comporta comunque l'accertamento del fatto di reato e viene iscritta nel casellario giudiziale.

Dal punto di vista della difesa della vittima, la nuova disciplina pare indurre a preferire la sede civile per agire in via risarcitoria così da non subire gli effetti del giudicato penale.

Come si evince anche dalla breve illustrazione che precede, la nuova normativa solleva molte questioni, sia per la difesa dell'imputato sia per la difesa della vittima. Ne abbiamo indicate alcune, ma altre se ne possono e se ne potranno aggiungere. Da parte nostra, ci ripromettiamo di raccogliere qui le voci di tutti gli interessati che vorranno manifestare il loro pensiero al riguardo.

In attesa di tornare sull'argomento, pensando che possa suscitare interesse e offrire spunti di riflessione, segnaliamo e pubblichiamo la sentenza del Tribunale di Milano con la quale è stato applicato il nuovo istituto in relazione ai reati ambientali. Ringraziamo l'estensore, il giudice, dottor Marco Formentin, che ha messo a disposizione la pronuncia non appena depositata in Cancelleria, e i difensori dell'imputato che hanno dato il loro assenso alla pubblicazione.

Emanuela Strina e Andrea Del Corno, avvocati in Milano


Clicca qui per il testo della legge 28 aprile 2014 n. 67
Clicca qui per il testo del decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28
Clicca qui per scaricare la sentenza del Tribunale di Milano, sezione X penale,  2 aprile – 4 maggio 2015
Clicca qui per scaricare la sentenza della Corte di Cassazione, sezione terza penale, 8 – 15 aprile  2015 n. 15449, citata anche nella pronuncia del Tribunale di Milano. 




martedì 21 aprile 2015

GUIDA IN STATO DI EBBREZZA: SOSPENSIONE DELLA PATENTE E DICHIARAZIONE DI ESTINZIONE DEL REATO

Tizio veniva condannato per guida in stato di ebbrezza con decreto penale di condanna emesso dal GIP di Milano il 15 novembre 2010, divenuto esecutivo il 9 marzo 2011. 

Il 28 luglio 2014 il decreto penale veniva comunicato alla Prefettura di Milano per l'applicazione della sanzione accessoria della sospensione della patente (in parte già scontata in via provvisoria) e il 25 agosto 2014 veniva emesso il provvedimento prefettizio con il quale era disposta  la sospensione della patente per il residuo periodo da scontare. Il provvedimento veniva poi notificato a Tizio il 12 settembre 2014.

Tizio consegnava la patente al Prefetto e proponeva ricorso al Giudice di Pace adducendo l'illegittimità del provvedimento prefettizio di sospensione della patente perché emesso tardivamente, in violazione dell'articolo 223 comma 3 del Codice della Strada e dell'articolo 2 della legge 241 del 1990.

Nelle more della fissazione d'udienza avanti al Giudice di Pace, Tizio otteneva dal GIP di Milano, in funzione di giudice dell'esecuzione,  la dichiarazione di estinzione del reato a norma dell'articolo 460, ultimo comma, codice di procedura penale, essendo decorso il biennio previsto dalla legge dalla esecutività del decreto penale di cui sopra senza aver commesso delitti o contravvenzioni.

All'udienza del 7 aprile 2015, il Giudice di Pace ha accolto il ricorso ritenendone fondati i motivi considerando che:
-  l'articolo 223 comma 3 del Codice della Strada dispone che il cancelliere del giudice che ha pronunciato il decreto divenuto irrevocabile ai sensi dell'articolo 648 codice di procedura penale deve trasmetterne copia autentica al prefetto nel termine di 15 giorni;
-  l' articolo 2 della legge 241 del 1990 prevede un più lungo termine di trenta giorni per la conclusione del procedimento amministrativo, costituito – nella situazione di specie -  dall'emissione del provvedimento prefettizio di sospensione della patente;
sicché il termine di tre anni e mezzo intercorso fra la data di esecutività del decreto penale (9 marzo 2011) e la data di trasmissione al Prefetto (28 agosto 2014) "non ha giustificazioni"  ed è in palese violazione delle norme appena richiamate. Inoltre, le " inefficienze o anche semplici difficoltà della burocrazia non possono comprimere, fino a sacrificarli, i diritti del cittadino.".

Sul punto la Corte di Cassazione ha ribadito che il provvedimento prefettizio di sospensione della patente ex articolo 223 del Codice della Strada deve essere adottato entro un lasso di tempo "ragionevole", data la sua funzione cautelare, e riconduce tale termine a quello di novanta giorni ai fini della legittimità dello stesso (Cassazione civile, sezione II civile, sentenza  26 settembre 2007 n. 19955 in cui è citata anche la  pronuncia a sezioni unite n. 13226 del 3 aprile 2007 che aveva poco prima risolto il contrasto giurisprudenziale).

Il provvedimento di estinzione del reato "con ogni effetto penale" , compreso quello della sospensione della patente di guida, che è sanzione accessoria rispetto al reato di cui all'articolo 186 del Codice della Strada, è stato peraltro considerato decisivo nel caso di specie, sicché il Giudice di Pace di Milano ha annullato il provvedimento prefettizio e disposto la restituzione della patente di guida a Tizio.

A cura di Emanuela Strina, avvocato in Milano
Caso patrocinato da Andrea Del Corno e Claudia Marsico, avvocati in Milano

Clicca qui per leggere la sentenza del giudice di pace
Clicca qui per leggere il provvedimento di estinzione del reato del GIP di Milano
Clicca qui per leggere la sentenza della Corte di Cassazione civile n. 19955 del 2007
Clicca qui per leggere la sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite  civili n. 13226 del 2007




lunedì 16 marzo 2015

VITTIMA E DECRETO PENALE: note a margine della sentenza della Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 23 del 2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 459, comma 1, codice di procedura penale, nella parte in cui, in caso di reati perseguibili a querela, prevede la facoltà del querelante di opporsi alla definizione del procedimento con l'emissione di decreto penale di condanna.

La Corte ha ritenuto fondata la questione posta dal GIP del Tribunale di Avezzano con riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, facendo una lunga premessa sul procedimento per decreto, inteso quale "rito premiale che risponde  ad evidenti esigenze deflattive"  fin dalla relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in cui è definito uno "strumento privilegiato di definizione anticipata del procedimento", tale da consentire "il maggior risparmio di risorse e la maggiore semplificazione".  Nella sentenza vengono infatti ricordate quali siano le caratteristiche del procedimento per decreto e i benefici premiali ad esso connessi.

A tal proposito viene altresì evidenziato che nella versione originaria, prima della modifica avvenuta nel 1999, il procedimento per decreto era riservato ai soli reati perseguibili d'ufficio, mentre l'articolo 37, comma 1, della legge n. 479 del 1999, ha successivamente esteso il rito ai reati perseguibili a querela "se questa è validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi".

Si sottolinea poi come sin dal suo ingresso nell'ordinamento la norma in questione sia stata oggetto di forti critiche "per i suoi tratti di assoluta eccentricità", poiché nel disciplinare altri casi in cui è data facoltà di opposizione  (ed è citata l'opposizione all'archiviazione ex articolo 409 codice di procedura penale e l'opposizione alla pronuncia di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto ex articolo 34, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274 sulla competenza penale del giudice di pace) il legislatore ha riconosciuto  tale facoltà alla persona offesa, e non al querelante.

Gli argomenti richiamati nella lunga premessa introducono quello su cui si incentra la motivazione della Corte, e cioè che "la norma censurata non trova una valida giustificazione né con riferimento alla posizione processuale della persona offesa, né con riguardo a quella del querelante".

Sostiene infatti la Corte che nel processo penale la persona offesa è portatrice di un duplice interesse, quello al risarcimento del danno  e quello dell'affermazione della responsabilità penale.  Riferendosi al primo, nella sentenza si sottolinea che "l'assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all'idea di separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione dei processi rispetto all'interesse del soggetto danneggiato, nell'ambito del processo penale, di avvalersi del processo medesimo ai fini del riconoscimento delle sue pretese di natura civilistica".

La Corte cita al riguardo la propria ordinanza n. 124 del 1999 emessa in relazione al decreto penale di condanna ante riforma, con cui era stata ritenuta infondata la richiesta di un pronunciamento teso a escludere l'ammissibilità del ricorso allo speciale  procedimento  di cui al Titolo V del Libro VI del codice di procedura penale nel caso in cui la persona offesa dal reato avesse manifestato, prima dell'esercizio dell'azione penale, l'intenzione di costituirsi parte civile. In  detta pronuncia, la Corte ribadiva che "l'eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto ad agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l'azione di risarcimento del danno nella sede civile, traendone la conclusione che ogni 'separazione dell'azione civile dall'ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale', essendo affidata al legislatore la scelta della configurazione della tutela medesima, in vista delle esigenze proprie del processo penale". 

Ciò detto, la Corte osserva  che la possibilità di esercitare l'azione civile nel processo penale da parte del querelante mediante l'opposizione alla definizione del procedimento con il decreto penale di condanna "è del tutto incoerente con la mancata previsione di una analoga facoltà di  opposizione" nella disciplina del  'patteggiamento'. Ne consegue, sempre secondo la Corte, che la diversità di disciplina tra il procedimento per decreto e quello relativo all'applicazione della pena su richiesta delle parti "non  trova una ragionevole giustificazione nell'interesse alla costituzione di parte civile della persona offesa/querelante".

La Corte afferma inoltre che la possibilità di opporsi alla definizione del procedimento con decreto non trova adeguata giustificazione neppure in relazione all'interesse della persona offesa  all'accertamento della responsabilità penale dell'autore del reato. Ai sensi dell'articolo 90 del codice di procedura penale, infatti, la persona offesa può partecipare al procedimento penale, anche a prescindere dalla costituzione di parte civile,  potendo presentare memorie e indicare elementi di prova in ogni stato e grado del procedimento, con esclusione del giudizio di cassazione.   

In conclusione sul punto, il querelante, quale persona offesa dal reato, non ha alcun interesse meritevole di tutela che giustifichi la facoltà di opporsi a che si proceda con il rito semplificato, fermo restando che qualora l'imputato proponga opposizione (al decreto penale di condanna), questi è rimesso nei pieni poteri della persona offesa per le successive fasi del giudizio.

La Corte considera poi l'ipotesi che il querelante in quanto tale abbia un interesse specifico, distinto da quello della persona offesa dal reato, a che il procedimento non si concluda con il decreto penale  di condanna, essendo prevista la possibilità di rimettere la querela. Ma anche sotto questo aspetto - sostiene ancora la Corte - tale interesse "non  è idoneo a fornire una ratio adeguata alla norma censurata che rimane intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l'applicazione della pena su richiesta delle parti e reca una rilevante menomazione al principio di ragionevole durata del processo".  
Secondo la Corte, infatti, la "facoltà di opposizione del querelante /…/ determina un ingiustificato allungamento dei tempi del processo e, soprattutto, ostacola la realizzazione dell'effetto deflattivo legato ai riti speciali di tipo premiale che, nelle intenzioni del legislatore, assume una particolare importanza per assicurare il funzionamento del processo 'accusatorio' adottato con la riforma del codice di procedura penale.".

In definitiva, la norma in esame cagiona una lesione del principio della ragionevole durata del processo, senza che la stessa sia giustificata dalle esigenza di tutela del querelante o della persona offesa, le quali, in virtù di quanto rilevato dalla Corte nella sentenza in commento, devono intendersi congruamente garantite.

La censurata facoltà si pone quindi in violazione del canone di ragionevolezza e del principio di ragionevole durata del processo, costituendo un bilanciamento degli interessi in gioco non giustificabile neppure alla luce dell'ampia discrezionalità che la giurisprudenza della Corte ha riconosciuto al legislatore nella conformazione degli istituti processuali.

In conclusione, secondo la Corte, "una volta ampliato il campo dei reati per i quali è possibile definire il procedimento con il decreto penale di condanna comprendendovi anche i reati procedibili a querela (con il dichiarato scopo di favorire sempre più il ricorso ai riti alternativi di tipo premiale per assicurare la deflazione del carico penale necessaria per l'effettivo funzionamento del rito accusatorio), l'attribuzione di una mera facoltà al querelante consistente nell'opposizione alla definizione del procedimento mediante decreto penale di condanna, introduce un evidente elemento di irrazionalità. Ciò in quanto:  a) distingue irragionevolmente la posizione del querelante rispetto a quella della persona offesa dal reato per i reati perseguibili d'ufficio; b) non corrisponde ad alcun interesse meritevole di tutela del querelante stesso; c) reca un significativo vulnus all'esigenza di rapida definizione del processo; d) si pone in contrasto sistematico con le esigenze di deflazione proprie dei riti alternativi premiali; e) è intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l'applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto tale rito speciale può essere una modalità di definizione del giudizio nonostante l'esercizio, da parte del querelante, del suo potere interdittivo.".

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Sin qui le argomentazioni che giustificano la decisione della Corte, volta innanzitutto a salvaguardare l'effetto fortemente deflattivo del ricorso ai riti alternativi di tipo premiale.

La pronuncia in commento offre tuttavia almeno uno spunto di riflessione critica se si considera che anche se vero che l'attuale sistema predilige l'esigenza di sollecita definizione del processo penale rispetto all'interesse del danneggiato di avvalersi dello stesso processo ai fini del riconoscimento delle sue pretese di natura civilistica, è pur vero che il nostro ordinamento prevede che la persona offesa/danneggiata dal reato abbia la possibilità di scegliere se esercitare l'azione di risarcimento del danno nel processo penale piuttosto che in quello civile.
Data questa possibilità, ne deriva, o ne dovrebbe derivare, che la scelta circa la sede in cui far valere la pretesa risarcitoria deve, o dovrebbe, poter essere effettuata consapevolmente, cioè dopo che la persona offesa/danneggiata dal reato è stata posta in condizione di conoscere quale sia la sorte del procedimento penale nel cui ambito sono contestate le condotte che hanno causato il danno di cui intende chiedere il ristoro, e quali siano le eventuali scelte di rito alternativo dell'imputato.

Nel procedimento per decreto non v'è possibilità, de jure condito, di scegliere "a ragion veduta" se svolgere l'azione risarcitoria davanti al giudice penale o a quello civile.  Il nostro ordinamento non contempla infatti la notificazione alla persona offesa del decreto penale di condanna (articolo 460, comma 3, codice di procedura penale), di cui è previsto soltanto che sia "data comunicazione al querelante"  (articolo 459, comma 4, codice di procedura penale) senza tuttavia che sia stabilita alcuna verifica al riguardo e tanto meno una sanzione in caso di omissione. Ciò significa che la "comunicazione" del decreto penale (che sarebbe comunque un incombente in più per il personale di cancelleria già carente e oberato), è rimessa all'iniziativa dei singoli magistrati, ma non consta che essa costituisca la prassi.

Inoltre, il decreto di citazione a giudizio emesso a seguito di opposizione a decreto penale non contiene normalmente l'indicazione della persona offesa né a questa viene notificato. La citazione della persona offesa è quindi generalmente rimessa al giudice del dibattimento che esegue il controllo della "regolare costituzione delle parti" (articoli 420 e 484 codice di procedura penale e 143 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale).

Si consideri invece l'ipotesi in cui l'imputato avanzi la richiesta di 'patteggiamento' e ottenga il consenso del pubblico ministero. In questo caso, è certamente vero, come sottolinea la Corte nella sentenza in esame, che il querelante/persona offesa, anche se costituito parte civile, non ha alcun potere interdittivo del rito e potrà indirizzare la pretesa risarcitoria soltanto nella sede propria; ma è altrettanto vero che è stato messo in condizioni di conoscere la scelta di rito effettuata dall'imputato, mediante la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare (articolo 419 codice di procedura penale) o del decreto di citazione diretta a giudizio (articolo 552 codice di procedura penale).

Sotto questo aspetto, la previsione della facoltà per il  querelante di opporsi all'emissione del decreto penale (ora censurata dalla Corte) teneva conto dell'interesse che la persona offesa dal reato perseguibile a querela ha in relazione all'esercizio dell'azione penale, in modo da operare consapevolmente la propria scelta circa la sede in cui svolgere l'azione risarcitoria.  E si spiegava anche l'innovazione di cui all'articolo 37, comma 1, della legge n. 479 del 1999, considerato che l'interesse del querelante per l'esercizio dell'azione penale è più immediatamente "tangibile" rispetto a quello della persona offesa dal reato perseguibile d'ufficio, che non è sempre (o comunque non è necessariamente) colei che ha presentato o trasmesso la notizia di reato. Senza contare che la possibilità di scegliere consapevolmente la sede di esercizio dell'azione risarcitoria dà ragione dell'affermazione ripresa dall'ordinanza n. 124 del 1999 (citata nella sentenza che si è commentata sopra), secondo la quale "l'eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto ad agire in giudizio", poiché infatti "resta intatta la possibilità di esercitare l'azione di risarcimento del danno nella sede civile /…/".

In conclusione, l'intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 23 del 2015 in esame ha indubbiamente privilegiato l'esigenza deflattiva, ma è anche un'occasione mancata di mettere in luce la posizione che ha nel procedimento per decreto il querelante/persona offesa dal reato perseguibile a querela, rispetto alla possibilità di venire a conoscenza dell'esercizio dell'azione penale e quindi di scegliere "a ragion veduta" la sede di esercizio dell'azione di risarcimento del danno.

Emanuela Strina, avvocato in Milano



Clicca qui per scaricare la sentenza della Corte Costituzionale n. 23 del 28 gennaio 2015