domenica 20 gennaio 2013

IL BILANCIO DI RESPONSABILITA’ SOCIALE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI

Il bilancio di responsabilità sociale è definito uno strumento di rendicontazione sociale delle strutture pubbliche, siano esse enti locali, enti pubblici economici, amministrazioni centrali, aziende sanitarie o società per azioni a  prevalente capitale pubblico.

Nel sito del Ministero della Giustizia si trova un'apposita sezione, nella quale è illustrato il Progetto nazionale e transnazionale "Diffusione delle best practices negli uffici giudiziari italiani", che prevede l'adozione di una struttura organizzativa più efficiente per gli uffici e pone l'obiettivo di migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell'azione svolta.

Proprio a quest'ultimo fine, è previsto che gli uffici giudiziari approvino il loro bilancio sociale, quale via di miglioramento organizzativo e di rendicontazione agli utenti della gestione economico-sociale delle risorse impiegate e dell'efficacia dell'ufficio.

Gli uffici giudiziari che aderiscono al Progetto sono già più di due decine*:
Procure della Repubblica: Avezzano, Lecco, Monza, Trento, Ravenna, Rovereto, Trieste
Tribunali: Bari, Brescia, Ferrara, Lecco, Milano, Monza, Potenza, Ravenna, Reggio Emilia, Rovereto, Taranto, Trieste, Varese
Procure Generali: Bologna, Genova
Tribunale per i  Minorenni: Bari
Corti di Appello: Genova, Lecce, Milano, Salerno, Torino
Giudici di Pace: Trieste, Taranto

http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_9_4_5.wp

Oggi a Palazzo Marino è stato presentato  il bilancio di responsabilità sociale del Tribunale di Milano e il Sindaco Pisapia ha detto che "Il bilancio di Responsabilità Sociale del Tribunale di Milano presta un'attenzione privilegiata al territorio, un aspetto positivo e innovativo."  
La scelta di Milano di aderire con convinzione al Progetto della buona pratica  negli Uffici Giudiziari italiani - ha aggiunto il Sindaco - "è un chiaro segnale della volontà di affrontare i problemi della giustizia con una visione moderna e propositiva".  Giuliano Pisapia ha poi proseguito affermando che "La fotografia che consegna questo documento racconta di una situazione difficile, anche a causa degli effetti della crisi sul territorio, a cui il Tribunale ha saputo rispondere mantenendo elevati gli standard qualitativi e migliorando la risposta ai bisogni dei cittadini. Penso, ad esempio, alla riduzione progressiva dei tempi dei procedimenti, soprattutto quelli penali (2-4 mesi rispetto alla media nazionale); penso alla informatizzazione delle procedure e all'implementazione di nuovi servizi e collaborazioni con altri Enti e Istituzioni."

Nella sintesi proposta dai redattori del Bilancio di responsabilità sociale del Tribunale di Milano, a proposito dei costi della giustizia, tema quanto mai attuale in questi tempi di crisi, si evidenzia che "Pur in assenza della precisa valorizzazione di alcune voci, i dati presentati consentono di apprezzare l'ingente lavoro condotto da un ufficio pubblico quale il Tribunale di Milano e l'entità delle risorse da esso mobilitate. A Fronte di un costo di circa 70 milioni di euro annui (circa 28 euro per abitante), la struttura ha prodotto tra il 2011 ed il 2012 circa 17 milioni di euro di entrate per l'erario (derivanti dal contributo unificato, dal recupero crediti dello Stato, dall'alienazione di beni confiscati e dal sequestro di denaro). Oltre a queste somme sono da considerarsi i valori dei beni sottoposti a sequestro dalla Sezione Autonoma Misure di Prevenzione (SAMP), pari a circa 118 milioni di euro in gestione nel 2012, i 17,1 milioni di euro derivanti dai valori posti a sequestro dal GIP ed, infine, i 6,7 milioni di euro di sequestri in gestione presso il settore del dibattimento penale. In definitiva, il valore complessivamente mobilitato è quantificabile (per difetto) in circa 163,8 milioni di euro, pari a più del doppio delle spese sostenute."

Vien da concludere che se cotanti sono i ricavi dell'esercizio della giurisdizione varrebbe la pena non lesinare gli investimenti da destinare alla giustizia ché l'uscita dalla crisi passa anche dall'efficienza del nostro sistema legale.


Il bilancio di responsabilità sociale del Tribunale di Milano è scaricabile cliccando sul seguente link

*PalaGius si rende sin d'ora disponibile a integrare l'elenco su cortese segnalazione dei lettori.

giovedì 17 gennaio 2013

UN GARANTE DEI DETENUTI PER MILANO

Il sindaco Giuliano Pisapia ha nominato il garante delle persone private della libertà personale, figura istituita dal Consiglio comunale durante una seduta straordinaria nel carcere di San Vittore, lo scorso ottobre. 

E' stata scelta Alessandra Naldi, laureata in Scienze Politiche, dottore di ricerca in Sociologia dei Fenomeni culturali e dei processi normativi e presidente della sezione regionale della Lombardia dell'Associazione Antigone. 

Il Garante dei detenuti rimarrà in carica per 3 anni e avrà principalmente il compito di "mantenere alta l'attenzione dell' opinione pubblica e costante l' informazione sulle condizioni dei luoghi di reclusione". Potrà raccogliere le segnalazioni di presunte violazioni dei diritti e riguardo queste ultime potrà rivolgersi alle autorità competenti per avere ulteriori informazioni e per chiedere il rispetto dei diritti dei detenuti. A tale ultimo fine, dovrà collaborare con gli istituti di pena, gli organi e gli uffici milanesi del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia minorile. 

L'attività del Garante sarà a stretto contatto con le università, con il mondo del volontariato, dell' associazionismo e del privato sociale milanese che opera in campo penale e penitenziario.
Il Garante dovrà riferire al Sindaco, alla Giunta, al Consiglio comunale e alle commissioni consiliari delle proprie attività; potrà avanzare proposte e richiedere iniziative presentando al Consiglio comunale una relazione annuale.

Il garante (o difensore o ombudsman) è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale.

Ventidue paesi dell’Unione europea e la Confederazione elvetica  prevedono garanti nazionali per i diritti dei detenuti. Nel nostro Paese tale figura non è ancora stata creata, pur essendovi almeno quattro disegni di legge al riguardo, che potrebbero tornare di attualità a seguito della recente sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo sulle condizioni di restrizione nelle nostre carceri. Esistono tuttavia garanti regionali, provinciali e comunali, ognuno avente le funzioni definite dai relativi atti istitutivi. A Milano esisteva finora soltanto il garante provinciale, sulla base di un regolamento del 2004.

La legislazione nazionale ha peraltro riconosciuto la figura dei garanti con la Legge 27 febbraio 2009, n. 14 che prevede per essi la possibilità di accesso negli istituti penitenziari con le stesse modalità contemplate per i parlamentari.

Gli indirizzi dei garanti regionali, provinciali e comunali sono reperibili sul sito del Ministero della Giustizia cui rinvia il link http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_3_6_2.wp

mercoledì 16 gennaio 2013

IL CSM E LE "GIUDICHESSE"

Dalla dottoressa Giovanna Di Rosa, componente del Consiglio Superiore della Magistratura, riceviamo e pubblichiamo.

Oggi il Plenum ha registrato l'intervento a nome di Giuseppina Casella e mio, sulla necessità di rispetto per tutte le decisioni giudiziarie a prescindere dal genere di appartenenza del magistrato che le ha emesse.
Di seguito il testo:

"Nella rassegna stampa di ieri è stato pubblicato l'articolo apparso sul Corriere della Sera a firma di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi.
Essi partono dalla constatazione che, nonostante le donne raggiungano mediamente risultati più che brillanti negli studi, il differenziale tra l'Italia ed i paesi europei più sviluppati sulla partecipazione, anche qualitativa, del genere femminile al mondo del lavoro è in questi anni aumentato anziché diminuito. Pertanto, suggeriscono di porre al centro del dibattito politico e dell'azione del prossimo governo la questione femminile in Italia, anche attraverso l'adozione di strumenti quali la detassazione del lavoro femminile e un uso più flessibile del part-time per facilitare la gestione familiare.
Per quanto qui concerne, non posso non rammentare che quest'anno cade il cinquantesimo anniversario della legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Ad essa seguì il decreto ministeriale del 3 maggio 1963, con cui fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: ed otto di loro risultarono vincitrici.
E', dunque, intenzione della sottoscritta e della consigliera Di Rosa, quali componenti del Comitato per le Pari Opportunità in Magistratura, organizzare, entro quest'anno, un convegno che non si limiti a celebrare tale anniversario, ma, soprattutto, funga anche da "balzo in avanti" per superare ogni ulteriore ostacolo al pieno conseguimento delle pari opportunità fra i generi in Magistratura.
Valga sul punto unicamente rammentare che, se nell'ambito degli 8949 magistrati in servizio, 4209 sono donne (pari ad una percentuale del 47% del totale), i posti direttivi e semidirettivi sono ancora per lo più ad appannaggio degli uomini, i quali ricoprono, rispettivamente, l'81 % dei primi ed il 70% dei secondi. Percentuali che, nella magistratura requirente, addirittura salgono all'89 % dei primi e all'86% dei secondi. Dati ancora più allarmanti si registrano con riferimento alla presenza delle donne magistrato all'interno degli organi istituzionali (valga per tutti il riferimento a questo CSM).
Ma, a tal fine, ragionando più in generale, occorre superare ogni residuo ancestrale pregiudizio nei confronti dell'universo femminile in magistratura.
E l'epiteto, che pure qualche giorno fa ha, purtroppo, avuto una larga eco sulla stampa, rivolto a talune colleghe del Tribunale civile di Milano, di "giudichesse" risulta prima che offensivo, assolutamente, direbbero gli inglesi, out of date, in quanto più consono ad una commedia all'italiana ambientata in una pretura di paese del finire degli anni '50'60.
La sottolineatura della diversità di genere al fine di delegittimare la decisione giudiziaria è il retaggio di un pregiudizio antico e, pare, ancora oggi, nel 2013, difficile da superare.
Ed è tale arretratezza culturale che va con somma urgenza superata per consentire, finalmente, come affermano gli autori del citato articolo, all'Italia di utilizzare appieno una parte essenziale del suo capitale umano: le donne."

IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA SUL CARCERE

Dalla dottoressa Giovanna Di Rosa, componente del Consiglio Superiore della Magistratura, riceviamo e pubblichiamo l'intervento svolto nel Plenum di oggi sul tema del carcere.

La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sulle tragiche condizioni del carcere in Italia e l'intervento del Procuratore della Repubblica di Milano hanno dato luogo oggi a un dibattito, in apertura di Plenum, di felice condivisione sull'estrema importanza di questa tematica.
La richiesta di un Plenum straordinario dedicato solo alla situazione degli istituti penitenziari in Italia, alla presenza del Capo dello Stato, il recepimento della necessità di testimoniare ciò negli interventi di inaugurazione dell'anno giudiziario da parte dei Consiglieri nei vari Distretti d'Italia, l'impegno fattivo di una magistratura responsabile che fa suo il problema quale interprete dell'uso attento della custodia cautelare in carcere attese le condizioni gravissime in cui tale misura viene oggi eseguita, sono diventati nei numerosi interventi dei Consiglieri (tra cui io) oggetto di condivisione comune.
Sono oggi felice di comunicarvi quanto sopra, perché come sapete, non ho mai mancato di intervenire in questi termini in tutti i momenti di vita consiliare sin dal suo inizio.
Speriamo che tra le tante importantissime questioni ordinamentali che occupano il Consiglio questo tema sia costantemente e sempre più valorizzato, perché è il fondamento di un sistema penale legittimo.

lunedì 14 gennaio 2013

MANIFESTO PER LE NOSTRE CARCERI

FARE subito perché NON FARE costa
L'Europa condanna l'Italia per il trattamento inumano e degradante che il nostro paese riserva ai detenuti: meno di 3 metri quadrati per vivere in cella. Così, dovremo pagare tutti ben 100 mila euro per danni morali ai 7 ricorrenti, ristretti nel carcere di Busto Arsizio e Piacenza.
Nella sentenza, i giudici della Corte europea dei diritti umani prendono atto che il problema è strutturale perché lo spazio non manca soltanto a 7 detenuti. Pendono infatti più di 550 ricorsi di altri carcerati che lamentano identiche condizioni di restrizione. Da qui l'ultimatum di 1 anno alle autorità italiane per risolvere il sovraffollamento carcerario anche prevedendo pene alternative.
Il Ministro della Giustizia esprime "avvilimento" per la condanna e il Presidente della Repubblica dice che è "mortificante" per il nostro Paese, ma ancora non si fa nulla e soprattutto non si parla di cosa e come si può fare subito: se ogni sentenza dovesse liquidare 100 mila euro di danni morali, quanto costerebbero a tutti noi quei 550 ricorsi alla Corte di Strasburgo?
Quanto potremmo risparmiare, invece, se reintegrassimo subito i fondi per la c.d. Legge Smuraglia che dal 2000 assicura agevolazioni fiscali e contributive agli imprenditori che assumono detenuti ? Parliamo di questo, invece di indugiare in un inutile rimbalzo di responsabilità.
Se la carcerazione si sconta senza lavorare, nell'80% dei casi i detenuti torneranno a delinquere, mentre è dimostrato che questa percentuale si abbassa fino al 19%  se ai carcerati è data la possibilità di lavorare. Ciò significa, in prospettiva, meno soldi da investire per la costruzione di nuove carceri e più soldi da destinare ad altre emergenze.
E nel frattempo? Se ciò che prima di tutto manca è lo spazio, perché non adibire a luoghi di detenzione, o di lavoro per detenuti, edifici che lo Stato non utilizza, sotto utilizza o vorrebbe vendere? Come le caserme, per esempio. Perché non verificare quali potrebbero essere i tempi per realizzare la riconversione di questi stabili?
Si può fare anche con le parole, se con queste capiamo come rimediare presto alla situazione attuale.
Perché una cosa è certa:
FARE SUBITO CONVIENE A TUTTI
NON FARE CONVIENE A POCHI E COSTA AI PIU'
Chi condivide i contenuti del Manifesto può adottarlo e diffonderlo a propria volta, oppure può postare un commento su questo blog e/o inviare una mail a palagius2012@gmail.com, anche indicando cosa e come già si fa e cosa e come si può fare subito.
PalaGius si impegna a raccogliere adesioni, commenti, propositi e testimonianze, in vista di un'occasione di incontro, scambio e confronto, perché nessuna risorsa vada perduta.


venerdì 4 gennaio 2013

ESECUZIONE PENALE: a colloquio con Giovanna Di Rosa

L'esecuzione penale non è normalmente compresa nel curriculum degli esami universitari che gli studenti della facoltà di giurisprudenza debbono obbligatoriamente sostenere per conseguire la laurea. Eppure la materia è straordinariamente attuale: dal digiuno di Marco Pannella alla recente notizia del Ministro della Giustizia che prende atto con amarezza dell'impossibilità di approvare il ddl sulle pene alternative, c.d. svuota carceri, fino all'ultimo cenno del Presidente Napolitano durante il discorso di fine anno, apprendiamo quotidianamente delle difficili condizioni dei condannati, i c.d. definitivi, soprattutto quelli che scontano la loro pena in carcere.

Ne parliamo con Giovanna Di Rosa, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di sorveglianza di Milano, attualmente in carica presso il C.S.M., componente della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza che ha predisposto una relazione - presentata lo scorso novembre al salone della giustizia di Roma - in cui sono raccolte proposte di intervento per affrontare il sovraffollamento e le difficili condizioni di vita all'interno delle strutture penitenziarie, spesso di gravità tale da integrare violazioni dei diritti fondamentali della persona, in palese contrasto con i dettami della nostra Carta costituzionale. Per il suo ruolo, assolto con competenza, passione, limpida dedizione e convinzione, l'Associazione dei Carducciani, che raccoglie gli ex allievi del Liceo Classico Giosuè Carducci di Milano presso il quale Giovanna Di Rosa ha conseguito la maturità classica nel 1979, l'ha premiata quale Carducciana dell'anno 2012.


La figura del magistrato di sorveglianza non è comunemente conosciuta. D'altra parte, la sorveglianza sull'esecuzione della pena è stata giurisdizionalizzata soltanto con la riforma penitenziaria del 1975 ché in precedenza era questione prettamente amministrativa. Ci vuole descrivere il compito del magistrato di sorveglianza e la competenza del tribunale di sorveglianza?

Il magistrato di sorveglianza ha vari compiti previsti dalla legge: concede i c.d. benefici penitenziari (permessi premio e misure alternative al carcere), la liberazione anticipata; dà il proprio parere sulle grazie; decide sull'eventuale differimento dell'esecuzione della pena (ad esempio, per ragioni di salute), sulle misure di sicurezza, compiendo il riesame della pericolosità sociale dopo l'espiazione della pena detentiva o il decorso del tempo minimo stabilito per la misura di sicurezza, sulla riabilitazione; sulla remissione del debito; sulla rateizzazione delle pene pecuniarie; monitora inoltre l'esecuzione delle misure alternative e delle misure di sicurezza potendo, in caso di violazioni importanti o di commissioni di reati, adottare provvedimenti che modificano il regime attuale o sospendere (con arresto immediato) la misura in corso; approva il programma di trattamento (cioè il percorso che l'amministrazione carceraria suggerisce per il detenuto), ovvero lo restituisce con rilievi, se ravvisa violazione dei diritti, e autorizza il programma di ammissione al lavoro esterno.
Il magistrato di sorveglianza ha poi un dovere di vigilanza sull'organizzazione delle carceri e sulla relativa legalità. Per assolvere questo compito, può prospettare al Ministro le esigenze rilevate "con particolare attenzione al trattamento educativo", come prescrive l'art. 69 comma 1 della L. n. 354/1975 contenente l'Ordinamento Penitenziario e può anche decidere sul reclamo proposto dai detenuti per la tutela dei loro diritti.
Il tribunale di sorveglianza - che è composto da 4 persone, di cui due sono giudici togati e due sono esperti in criminologia, antropologia, discipline mediche, ecc. - decide su talune misure alternative più ampie, quali l'affidamento e la semilibertà, ed è competente, come giudice di secondo grado, sui reclami contro i provvedimenti adottati dal magistrato di sorveglianza, a seguito di ricorso dell'interessato o del pubblico ministero.

E' vero che spesso i difensori non si occupano della fase esecutiva, quasi che, terminato il processo ed esauriti i gradi di giudizio, non vi sia più nulla da fare per il proprio assistito?

E' senz'altro vero che i difensori d'ufficio non seguono i loro assistiti nella fase esecutiva. E' un discorso che vale per i detenuti non abbienti, perché il difensore di fiducia segue di norma la fase dell'esecuzione e spesso riesce a evitare, mediante la proposizione di apposite istanze, l'ingresso del condannato in carcere.

L'Ordine degli Avvocati di Milano ha predisposto un servizio di consulenza legale per i detenuti presso gli istituti penitenziari di San Vittore, Opera e Bollate, specialmente dedicato a quelli con condanna breve, privi di difensore di fiducia e indigenti. Per quanto ci consta è un'iniziativa unica e risulta che lei, dottoressa Di Rosa, ne sia stata convinta promotrice. Ce ne vuole parlare?

Nel corso di colloqui con i detenuti non abbienti, privi di difensore di fiducia, mi sono accorta che le posizioni giuridiche di alcuni condannati, tra cui tanti stranieri, avrebbero potuto essere migliorate, cioè i detenuti avrebbero potuto avere, di diritto, un fine pena più breve, se fosse stata seguita con cura la loro vicenda.
L'entità della condanna può infatti cambiare nel tempo perché possono intervenire molti fattori a beneficio del condannato, quali la liberazione anticipata (cioè lo sconto di pena ottenibile ogni sei mesi di detenzione se il condannato ha tenuto condotta regolare), il riconoscimento della continuazione tra i vari reati, la fungibilità di carcerazioni pregresse e non seguite da condanne (c.d. presofferto), e via dicendo. 
Il magistrato di sorveglianza può, entro certi limiti, intervenire, ma ha bisogno dell'istanza o dell'interessato o del suo difensore. In un primo tempo, in mancanza di quest'ultimo, ho qualificato istanze le dichiarazioni che raccoglievo dai detenuti con i quali avevo colloquio, ma non era una soluzione generalizzata e, fra altro, nemmeno condivisa da tutti i colleghi.
Ho pensato allora che si potesse trovare rimedio con un intervento di generosità dell'Ordine degli Avvocati, cui mi sono rivolta chiedendo la disponibilità di avvocati qualificati, su base esclusivamente volontaria.  Insieme, abbiamo così creato la figura degli avvocati che operano gratuitamente e con l'impegno di non ricevere alcunché da alcuno per l'assistenza prestata ai detenuti non abbienti; ciò, tenuto conto dell'impossibilità di trasformare l'intervento volontario in un intervento d'ufficio e per non incorrere, da parte dei volontari, nel divieto di c.d. accaparramento di clientela. 
L'iniziativa si è poi evoluta perché, insieme pure al presidente della corte di appello e all'amministrazione penitenziaria, abbiamo organizzato corsi qualificati in materia e turni di disponibilità giornalieri predisposti dall'Ordine
I difensori di turno possono così recarsi nelle carceri del distretto di Milano dove incontrano i detenuti - con determinati requisiti di reddito - che ne hanno fatto preventiva richiesta. 

Secondo la sua esperienza presso il tribunale di sorveglianza di Milano, quanto contano le modalità di esecuzione della pena sul processo di recupero di un condannato alla società?

Secondo la mia personale esperienza sono determinanti. 
Posso riferire di tante situazioni in cui l'avvio di un percorso di reinserimento sul territorio, cioè di reimmissione di una persona nel circuito sociale, è stato decisivo per un esito felice: questa persona si è reimpadronita di se stessa, delle propria gestione e autodeterminazione anche in un contesto lavorativo,  capace di comportarsi e rapportarsi con senso di responsabilità nelle relazioni familiari e sociali. 
Lo posso dire in relazione a casi specifici di detenuti che, partendo dal permesso premio e dall'ammissione al lavoro esterno, sono passati alla condizione di semiliberi e di affidati, hanno avuto (o no) un tempo di libertà vigilata e si sono inseriti, senza più ricadute di rilevanza penale.
Autorizzare questi percorsi con i propri provvedimenti, anche correttivi, e poi assistervi vigilando e dando fiducia è un'esperienza certo rischiosa, ma forte e importante. Capisco bene che questa mia esperienza ravvicinata mi consente di avere la prova scientifica dell'esattezza di questi percorsi, cosa che, forse, per chi non fa il mio lavoro è più difficile da comprendere.
L'esperienza è tanto più forte con lunghe carcerazioni, dunque per reati più gravi, perché la scommessa sulla tenuta della persona è più impegnativa.
Le statistiche confermano quanto ho detto prima: se vengono concesse misure alternative, la recidiva è del 19%, se non vengono concesse, sale all' 80%.

Quanto è importante per un condannato poter svolgere attività lavorativa? quali e quante sono le possibilità per un condannato di lavorare all'interno e fuori dal carcere? E' vero, dottoressa Di Rosa, che ha avuto l'idea di far cucire le toghe in carcere? Ed è così che è nata la cooperativa Alice?

Svolgere attività lavorativa retribuita è determinante perché permette al condannato di contribuire al mantenimento proprio e della famiglia. Ciò consente un riscatto e riconsegna all'uomo condannato il valore del far parte di un processo produttivo, lo fa sentire più utile e lo motiva a credere in se stesso. Offrire inoltre un modello di comportamento secondo regola conduce, talvolta, a sperimentare un modo di vita diverso e magari mai tentato, che invoglia al cambiamento e comunque alla ricerca di una condotta regolare, anche perché si sono già conosciuti i meccanismi della devianza e le conseguenze di scelte sbagliate.
Le possibilità concrete di trovare un lavoro dentro e fuori dal carcere sono molto poche per una serie di motivi: dentro, la difficoltà più grande è la mancanza di spazi e fuori, ancor di più, perché i detenuti o gli ex detenuti non costituiscono ex se personale richiesto.  Spesso, soprattutto gli extracomunitari, non hanno una professionalità specifica. Inoltre, di recente i tagli agli incentivi fiscali che erano previsti per favorire l'assunzione di detenuti ed ex detenuti presso le aziende (c.d. Legge Smuraglia) hanno portato un  colpo mortale al mercato del lavoro per tali persone.
Sì, ho pensato di far confezionare le toghe in carcere, l'idea mi è venuta mentre accompagnavo una ventina di giovani magistrati in tirocinio a visitare il carcere di San Vittore. Stavamo visitando il laboratorio della Cooperativa Alice, che si trova al suo interno e che già esisteva, occupandosi di abbigliamento, e per i giovani magistrati si avvicinava il momento di dover comprare la toga.
Ho chiesto all'amministrazione penitenziaria la fattibilità di questo progetto, studiando il senso del percorso trattamentale, che non è affatto del contrappasso, ma è un percorso simbolico di ricucitura con la società proprio attraverso un oggetto di giustizia, quale è la toga. 
Ho preso contatti con la responsabile della cooperativa e ho prestato la mia toga come modello, perché non l' avevano. 
Con la diffusione del piano fra gli organi istituzionali preposti al tirocinio, l'Associazione Nazionale Magistrati e l'Ordine degli Avvocati di Milano, l'iniziativa è diventata più forte. 
Ora sto cercando di creare una forma di collaborazione con colleghi di altri paesi europei. 
L'ordine si può fare anche via internet e dunque non vi sono limiti spazio-temporali. Attualmente i laboratori che vi lavorano sono due, uno presso il carcere di San Vittore e l'altro alla sezione femminile di Bollate, oltre a un laboratorio esterno. La cooperativa ha poi anche un negozio in Milano.

Un discorso a parte merita la condizione delle detenute madri. A Milano è stato recentemente istituito l'ICAM (Istituto Custodia Attenuata Madri), ci vuole parlare di questo esperimento?

L'esperimento dell'ICAM a Milano ha significato cercare di creare una struttura che, dovendo ospitare madri con bambini entro i tre anni di età, assomigliasse il meno possibile a un carcere.
Così, all'interno di uno stabile collocato in un palazzo della provincia, in una zona centrale di Milano, di fronte all'Ospedale della maternità Melloni (cui è collegato tramite un tunnel), è stata creata questa struttura, che nasconde, con una serie di accorgimenti, gli aspetti propri della detenzione: le sbarre sono state occultate da tendine, i colori usati per le pareti sono giallo e rosa, l'arredo prescelto è di tipo etnico, dunque più leggero, sono state predisposte porte a vetri anziché blindi con spioncini, e cosi via. 
Il contenuto del progetto pedagogico per le mamme ha previsto percorsi di reinserimento tali da favorire il rapporto madre-figlio rispettando il bambino. Ai bambini è possibile frequentare l'asilo nido comunale e si sono previsti spazi per assicurare alla madre di passare qualche ora in un luogo meno austero con gli altri bambini in visita. 
Il regolamento di questo istituto è stato il primo in Italia per il settore femminile e contiene innovazioni profonde sulle regole di vita, nel senso di promuovere l'autonomia della donna e della madre e la valorizzazione del rapporto con il figlio. Presiedendo la commissione che lo ha approvato, ho cercato di farvi partecipare tutte le figure coinvolte, alla ricerca di un nuovo percorso, condiviso con gli attori di riferimento, in anticipazione della normativa.
L'esperienza è stata portata in Europa, nell'ambito del progetto Criminal Justice promosso dalla Comunità Europea. 
Illustrando questo progetto all'estero, ho visitato tante strutture detentive e posso assicurare che nessuna aveva il contenuto pedagogico e gli accorgimenti dell'ICAM, dove la scommessa, forte, è quella di lasciare alle madri il maggior spazio e tempo possibile per gestire la casa-carcere e accudire i propri bambini. 
Attualmente nessun'altra struttura è così. Eppure è indispensabile assicurare che i bambini non crescano in nidi, anche apparentemente gradevoli, all'interno delle carceri. E' scientificamente dimostrato  che l'esempio di istituzionalizzazione assorbito nei primi anni di vita attraverso le relazioni che la propria madre ha con la polizia penitenziaria che ne gestisce l'autonomia sia destinato a riflettersi per sempre nei rapporti con le istituzioni. Per quei bambini, infatti, questi rapporti saranno sempre conflittuali e di contrapposizione.

Un' ultima domanda, dottoressa Di Rosa, ma forse è quella per la quale abbiamo pensato di svolgere questo colloquio con lei: perché vale la pena prestare attenzione alla condizione dei detenuti?

Vale la pena prestarvi attenzione perché, così facendo, si investe sulla parte buona delle persone per ricavarne uomini migliori  rispetto a quelli che altrimenti uscirebbero. Il carcere, come è noto, è uno dei fattori criminogeni e le società che non si occupano della situazione detentiva producono persone che, una volta scarcerate, sono più violente e inclini a delinquere.
Inoltre, direi che è nostro dovere prestare attenzione alla condizione dei detenuti perché il carcere è lo specchio della società libera e ospita, per lo più, persone meno favorite dalle condizioni di vita che per accidente sono loro toccate. 
Quanti di coloro che sono in carcere oggi hanno scelto realmente di delinquere e non vi sono stati costretti dalla contingenza? E quanti di coloro che stanno fuori non tengono comportamenti che, solo perché non scoperti, non hanno una sorte diversa? Tanti, davvero tanti. Ecco perché dobbiamo occuparcene.

Ma alla fine, dottoressa Di Rosa, che luogo è il carcere?

In carcere, a differenza che nella società esterna, ciascuno è esattamente quello che è, senza finzioni. Questo ne fa un luogo di sincerità. Ma quanti sono disposti a condividere questo pensiero?
E infine: basta parole. So che è un tema che dà visibilità politica, e quindi a molti piace parlarne, ma è anche un tema che merita  rispetto, perché si parla, e si decide, della libertà personale. Per questo 2013, allora, direi: solo fatti.



mercoledì 2 gennaio 2013

IL PRIMO MAXI TRIBUNALE SARA' LOMBARDO

La notizia è del Corriere della Sera e si trova fra le pagine della cronaca lombarda di fine anno (30.12.12): come previsto dal decreto legislativo n. 155 approvato lo scorso settembre, il tribunale di Pavia accorperà quelli di Vigevano e Voghera, amministrerà la giustizia di quasi 250 Comuni - ché la competenza si estende per un territorio di circa 3.000 kmq - e sarà operativo sin dal prossimo settembre.

Secondo i dati ministeriali, nei tre tribunali della provincia di Pavia vengono celebrati quasi 22.000 processi all'anno (8.474 a Pavia, 8.165 a Vigevano e 5.090 a Voghera): da settembre 2013 si svolgeranno tutti presso la nuova sede del polo giudiziario, perché quella attuale del tribunale non è in grado di accogliere altri uffici (vedi in questo blog l'articolo dell'8 agosto 2012).

La nuova sede è stata individuata di concerto col Presidente del Tribunale, Giampiero  Serangeli, e con il Procuratore della Repubblica, Gustavo Cioppa, ed è di proprietà del Comune di Pavia. Si tratta dello stabile dell' ex ambulatorio ASL, in corso Garibaldi, che a seguito della delibera assunta nell'ultima seduta di giunta del 2012 è stato messo a disposizione del maxi tribunale lombardo.

L'edificio sarebbe in parte già fruibile, ma necessita di interventi per quasi 2 milioni di euro, somma per la quale il Comune ha intenzione di chiedere l'intervento del Ministero di Giustizia - secondo quanto riferisce il sindaco Cattaneo a Enrico Venni del quotidiano milanese - a fronte della rinuncia a 5 milioni di euro che avrebbe potuto incassare con la vendita dell'immobile, e che il Ministero potrebbe recuperare dal risparmio degli affitti di 600.000 euro l'anno per il palazzo di giustizia di Pavia, 523 mila euro per quello di Vigevano e di 346 mila euro per quello di Voghera; importi, questi ultimi, che attualmente pesano sui bilanci dei rispettivi comuni.

A settembre 2013 si sposteranno da Vigevano e Voghera anche 250 dipendenti e cancellieri da ricollocare nella nuova sede pavese, oltre a magistrati e funzionari.

I numeri che si sono riportati, sulla scorta di quelli registrati nell'articolo pubblicato dal Corriere della Sera a firma di Enrico Venni, sono solo una parte di quelli relativi all'altra metà, quella dei tribunali accorpanti, che nel post dell'8 agosto 2012 si auspicava fossero raccolti prima dell'emanazione dei decreti legislativi nn. 155 e 156. Restano infatti ancora da conoscere tutti i costi dell'operazione. Quanto tempo sarà necessario per stabilire il concreto ed efficiente funzionamento della nuova organizzazione degli uffici giudiziari? L'11 agosto si dava conto in questo blog delle dichiarazioni del Procuratore Capo di Modica, Francesco Puleio, che prevedeva "un blocco della giustizia per almeno quattro anni" a seguito dell'attuazione dei menzionati decreti legislativi, nel caso specifico implicante l'accorpamento del tribunale di Modica con quello di Ragusa. Il nostro Paese si può permettere un'eventualità simile?

In esordio al 2013, si deve poter confidare che il primo maxi tribunale a seguito della revisione della geografia giudiziaria varata nel settembre 2012, sarà concretizzato secondo criteri esemplari, tenuto conto degli indirizzi di governo, coordinati e realizzati, nel distretto milanese, dal Presidente della Corte di Appello, Giovanni Canzio.