lunedì 16 marzo 2015

VITTIMA E DECRETO PENALE: note a margine della sentenza della Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 23 del 2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 459, comma 1, codice di procedura penale, nella parte in cui, in caso di reati perseguibili a querela, prevede la facoltà del querelante di opporsi alla definizione del procedimento con l'emissione di decreto penale di condanna.

La Corte ha ritenuto fondata la questione posta dal GIP del Tribunale di Avezzano con riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, facendo una lunga premessa sul procedimento per decreto, inteso quale "rito premiale che risponde  ad evidenti esigenze deflattive"  fin dalla relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in cui è definito uno "strumento privilegiato di definizione anticipata del procedimento", tale da consentire "il maggior risparmio di risorse e la maggiore semplificazione".  Nella sentenza vengono infatti ricordate quali siano le caratteristiche del procedimento per decreto e i benefici premiali ad esso connessi.

A tal proposito viene altresì evidenziato che nella versione originaria, prima della modifica avvenuta nel 1999, il procedimento per decreto era riservato ai soli reati perseguibili d'ufficio, mentre l'articolo 37, comma 1, della legge n. 479 del 1999, ha successivamente esteso il rito ai reati perseguibili a querela "se questa è validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi".

Si sottolinea poi come sin dal suo ingresso nell'ordinamento la norma in questione sia stata oggetto di forti critiche "per i suoi tratti di assoluta eccentricità", poiché nel disciplinare altri casi in cui è data facoltà di opposizione  (ed è citata l'opposizione all'archiviazione ex articolo 409 codice di procedura penale e l'opposizione alla pronuncia di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto ex articolo 34, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274 sulla competenza penale del giudice di pace) il legislatore ha riconosciuto  tale facoltà alla persona offesa, e non al querelante.

Gli argomenti richiamati nella lunga premessa introducono quello su cui si incentra la motivazione della Corte, e cioè che "la norma censurata non trova una valida giustificazione né con riferimento alla posizione processuale della persona offesa, né con riguardo a quella del querelante".

Sostiene infatti la Corte che nel processo penale la persona offesa è portatrice di un duplice interesse, quello al risarcimento del danno  e quello dell'affermazione della responsabilità penale.  Riferendosi al primo, nella sentenza si sottolinea che "l'assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all'idea di separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione dei processi rispetto all'interesse del soggetto danneggiato, nell'ambito del processo penale, di avvalersi del processo medesimo ai fini del riconoscimento delle sue pretese di natura civilistica".

La Corte cita al riguardo la propria ordinanza n. 124 del 1999 emessa in relazione al decreto penale di condanna ante riforma, con cui era stata ritenuta infondata la richiesta di un pronunciamento teso a escludere l'ammissibilità del ricorso allo speciale  procedimento  di cui al Titolo V del Libro VI del codice di procedura penale nel caso in cui la persona offesa dal reato avesse manifestato, prima dell'esercizio dell'azione penale, l'intenzione di costituirsi parte civile. In  detta pronuncia, la Corte ribadiva che "l'eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto ad agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l'azione di risarcimento del danno nella sede civile, traendone la conclusione che ogni 'separazione dell'azione civile dall'ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale', essendo affidata al legislatore la scelta della configurazione della tutela medesima, in vista delle esigenze proprie del processo penale". 

Ciò detto, la Corte osserva  che la possibilità di esercitare l'azione civile nel processo penale da parte del querelante mediante l'opposizione alla definizione del procedimento con il decreto penale di condanna "è del tutto incoerente con la mancata previsione di una analoga facoltà di  opposizione" nella disciplina del  'patteggiamento'. Ne consegue, sempre secondo la Corte, che la diversità di disciplina tra il procedimento per decreto e quello relativo all'applicazione della pena su richiesta delle parti "non  trova una ragionevole giustificazione nell'interesse alla costituzione di parte civile della persona offesa/querelante".

La Corte afferma inoltre che la possibilità di opporsi alla definizione del procedimento con decreto non trova adeguata giustificazione neppure in relazione all'interesse della persona offesa  all'accertamento della responsabilità penale dell'autore del reato. Ai sensi dell'articolo 90 del codice di procedura penale, infatti, la persona offesa può partecipare al procedimento penale, anche a prescindere dalla costituzione di parte civile,  potendo presentare memorie e indicare elementi di prova in ogni stato e grado del procedimento, con esclusione del giudizio di cassazione.   

In conclusione sul punto, il querelante, quale persona offesa dal reato, non ha alcun interesse meritevole di tutela che giustifichi la facoltà di opporsi a che si proceda con il rito semplificato, fermo restando che qualora l'imputato proponga opposizione (al decreto penale di condanna), questi è rimesso nei pieni poteri della persona offesa per le successive fasi del giudizio.

La Corte considera poi l'ipotesi che il querelante in quanto tale abbia un interesse specifico, distinto da quello della persona offesa dal reato, a che il procedimento non si concluda con il decreto penale  di condanna, essendo prevista la possibilità di rimettere la querela. Ma anche sotto questo aspetto - sostiene ancora la Corte - tale interesse "non  è idoneo a fornire una ratio adeguata alla norma censurata che rimane intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l'applicazione della pena su richiesta delle parti e reca una rilevante menomazione al principio di ragionevole durata del processo".  
Secondo la Corte, infatti, la "facoltà di opposizione del querelante /…/ determina un ingiustificato allungamento dei tempi del processo e, soprattutto, ostacola la realizzazione dell'effetto deflattivo legato ai riti speciali di tipo premiale che, nelle intenzioni del legislatore, assume una particolare importanza per assicurare il funzionamento del processo 'accusatorio' adottato con la riforma del codice di procedura penale.".

In definitiva, la norma in esame cagiona una lesione del principio della ragionevole durata del processo, senza che la stessa sia giustificata dalle esigenza di tutela del querelante o della persona offesa, le quali, in virtù di quanto rilevato dalla Corte nella sentenza in commento, devono intendersi congruamente garantite.

La censurata facoltà si pone quindi in violazione del canone di ragionevolezza e del principio di ragionevole durata del processo, costituendo un bilanciamento degli interessi in gioco non giustificabile neppure alla luce dell'ampia discrezionalità che la giurisprudenza della Corte ha riconosciuto al legislatore nella conformazione degli istituti processuali.

In conclusione, secondo la Corte, "una volta ampliato il campo dei reati per i quali è possibile definire il procedimento con il decreto penale di condanna comprendendovi anche i reati procedibili a querela (con il dichiarato scopo di favorire sempre più il ricorso ai riti alternativi di tipo premiale per assicurare la deflazione del carico penale necessaria per l'effettivo funzionamento del rito accusatorio), l'attribuzione di una mera facoltà al querelante consistente nell'opposizione alla definizione del procedimento mediante decreto penale di condanna, introduce un evidente elemento di irrazionalità. Ciò in quanto:  a) distingue irragionevolmente la posizione del querelante rispetto a quella della persona offesa dal reato per i reati perseguibili d'ufficio; b) non corrisponde ad alcun interesse meritevole di tutela del querelante stesso; c) reca un significativo vulnus all'esigenza di rapida definizione del processo; d) si pone in contrasto sistematico con le esigenze di deflazione proprie dei riti alternativi premiali; e) è intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l'applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto tale rito speciale può essere una modalità di definizione del giudizio nonostante l'esercizio, da parte del querelante, del suo potere interdittivo.".

***

Sin qui le argomentazioni che giustificano la decisione della Corte, volta innanzitutto a salvaguardare l'effetto fortemente deflattivo del ricorso ai riti alternativi di tipo premiale.

La pronuncia in commento offre tuttavia almeno uno spunto di riflessione critica se si considera che anche se vero che l'attuale sistema predilige l'esigenza di sollecita definizione del processo penale rispetto all'interesse del danneggiato di avvalersi dello stesso processo ai fini del riconoscimento delle sue pretese di natura civilistica, è pur vero che il nostro ordinamento prevede che la persona offesa/danneggiata dal reato abbia la possibilità di scegliere se esercitare l'azione di risarcimento del danno nel processo penale piuttosto che in quello civile.
Data questa possibilità, ne deriva, o ne dovrebbe derivare, che la scelta circa la sede in cui far valere la pretesa risarcitoria deve, o dovrebbe, poter essere effettuata consapevolmente, cioè dopo che la persona offesa/danneggiata dal reato è stata posta in condizione di conoscere quale sia la sorte del procedimento penale nel cui ambito sono contestate le condotte che hanno causato il danno di cui intende chiedere il ristoro, e quali siano le eventuali scelte di rito alternativo dell'imputato.

Nel procedimento per decreto non v'è possibilità, de jure condito, di scegliere "a ragion veduta" se svolgere l'azione risarcitoria davanti al giudice penale o a quello civile.  Il nostro ordinamento non contempla infatti la notificazione alla persona offesa del decreto penale di condanna (articolo 460, comma 3, codice di procedura penale), di cui è previsto soltanto che sia "data comunicazione al querelante"  (articolo 459, comma 4, codice di procedura penale) senza tuttavia che sia stabilita alcuna verifica al riguardo e tanto meno una sanzione in caso di omissione. Ciò significa che la "comunicazione" del decreto penale (che sarebbe comunque un incombente in più per il personale di cancelleria già carente e oberato), è rimessa all'iniziativa dei singoli magistrati, ma non consta che essa costituisca la prassi.

Inoltre, il decreto di citazione a giudizio emesso a seguito di opposizione a decreto penale non contiene normalmente l'indicazione della persona offesa né a questa viene notificato. La citazione della persona offesa è quindi generalmente rimessa al giudice del dibattimento che esegue il controllo della "regolare costituzione delle parti" (articoli 420 e 484 codice di procedura penale e 143 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale).

Si consideri invece l'ipotesi in cui l'imputato avanzi la richiesta di 'patteggiamento' e ottenga il consenso del pubblico ministero. In questo caso, è certamente vero, come sottolinea la Corte nella sentenza in esame, che il querelante/persona offesa, anche se costituito parte civile, non ha alcun potere interdittivo del rito e potrà indirizzare la pretesa risarcitoria soltanto nella sede propria; ma è altrettanto vero che è stato messo in condizioni di conoscere la scelta di rito effettuata dall'imputato, mediante la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare (articolo 419 codice di procedura penale) o del decreto di citazione diretta a giudizio (articolo 552 codice di procedura penale).

Sotto questo aspetto, la previsione della facoltà per il  querelante di opporsi all'emissione del decreto penale (ora censurata dalla Corte) teneva conto dell'interesse che la persona offesa dal reato perseguibile a querela ha in relazione all'esercizio dell'azione penale, in modo da operare consapevolmente la propria scelta circa la sede in cui svolgere l'azione risarcitoria.  E si spiegava anche l'innovazione di cui all'articolo 37, comma 1, della legge n. 479 del 1999, considerato che l'interesse del querelante per l'esercizio dell'azione penale è più immediatamente "tangibile" rispetto a quello della persona offesa dal reato perseguibile d'ufficio, che non è sempre (o comunque non è necessariamente) colei che ha presentato o trasmesso la notizia di reato. Senza contare che la possibilità di scegliere consapevolmente la sede di esercizio dell'azione risarcitoria dà ragione dell'affermazione ripresa dall'ordinanza n. 124 del 1999 (citata nella sentenza che si è commentata sopra), secondo la quale "l'eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto ad agire in giudizio", poiché infatti "resta intatta la possibilità di esercitare l'azione di risarcimento del danno nella sede civile /…/".

In conclusione, l'intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 23 del 2015 in esame ha indubbiamente privilegiato l'esigenza deflattiva, ma è anche un'occasione mancata di mettere in luce la posizione che ha nel procedimento per decreto il querelante/persona offesa dal reato perseguibile a querela, rispetto alla possibilità di venire a conoscenza dell'esercizio dell'azione penale e quindi di scegliere "a ragion veduta" la sede di esercizio dell'azione di risarcimento del danno.

Emanuela Strina, avvocato in Milano



Clicca qui per scaricare la sentenza della Corte Costituzionale n. 23 del 28 gennaio 2015





venerdì 13 marzo 2015

SOVRAFFOLLAMENTO DELLE CARCERI: I RIMEDI RISARCITORI PER I DETENUTI


Con la nota sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sono stati sospesi tutti i ricorsi proposti dai detenuti italiani in relazione all'articolo 3 CEDU per le condizioni disumane e degradanti della detenzione subita nella nostre carceri ed è stato concesso allo Stato italiano un anno di tempo (a partire dal maggio 2013, posticipato poi al giugno 2015) per adottare le misure necessarie a porre rimedio alla situazione di sovraffollamento carcerario.
Il decreto legge 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014 n. 117, ha inserito nell'ordinamento  penitenziario (legge 26 luglio 1974, n. 354) i "rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati". Ne parliamo con Walter De Agostino, avvocato in Roma, che da tempo si occupa di queste tematiche affrontandole innanzi all'Autorità Giudiziaria Italiana nonché alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo.

Qual è il pregiudizio per il quale si può avanzare istanza risarcitoria ?
Con il decreto legge n. 92 è stata introdotta la possibilità per il detenuto di richiedere, mediante reclamo al magistrato di sorveglianza, il risarcimento del danno per i periodi di detenzione in carcere in cui ha subito un trattamento inumano e degradante come cristallizzato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo.
A partire dalla sentenza Torreggiani ed altri del 9 gennaio 2013, è stata infatti accertata la violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo in quanto i ricorrenti (detenuti in vari istituti penitenziari italiani) hanno dimostrato di aver subito un pregiudizio morale in relazione alle precarie condizioni di detenzione dovute in particolare al sovraffollamento carcerario, alle dimensioni delle celle, alle condizioni fatiscenti delle infrastrutture degli istituti di pena ed alla carenza dei servizi.
Con questa pronuncia, emessa con la procedura della sentenza pilota, è stata affermata la responsabilità dello Stato Italiano, che è stato condannato a corrispondere ai ricorrenti, a titolo di equa riparazione, somme di denaro di diversa entità (a secondo delle differenti durate del pregiudizio subito) ed è stata formalmente dichiarata l'esistenza di un problema sistemico del sistema carcerario italiano.
Per tali motivi lo Stato Italiano è stato altresì invitato ad adottare entro il termine di un anno da quando la sentenza sarà diventata definitiva (28 maggio 2014) provvedimenti legislativi finalizzati sia a garantire ai detenuti una effettiva tutela giurisdizionale dei loro diritti sia ad introdurre dei rimedi risarcitori nonché misure idonee a diminuire il sovraffollamento carcerario.

In cosa consistono i rimedi introdotti dal decreto legge n. 92?
Innanzitutto con il decreto legge n. 92 sono state introdotte alcune norme tendenti a diminuire l'applicazione della custodia cautelare in carcere ovvero degli arresti domiciliari, prevedendo, in particolare, il divieto di applicazione di queste misure cautelari nell'ipotesi in cui il giudice ritenga che, all'esito del giudizio, possa essere concessa la sospensione condizionale della pena ovvero la pena detentiva da eseguire non sia superiore a tre anni.
Con la legge di conversione n. 117/2014 sono state però introdotte delle modifiche che hanno limitato l'applicazione di tale disposizione, in particolare prevedendo l'esclusione per i procedimenti aventi ad oggetto i delitti di cui agli articoli 423 bis, 572, 612 bis e 624 bis c.p. nonché i delitti contemplati nell'articolo 4 bis della legge 26 luglio 1974, n. 354 (O.P.) ovvero quando, "rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell'art. 284 comma 1 (c.p.p.) ".
La normativa è stata poi modificata anche nella parte relativa all'entità della condanna, non prevedendo più il divieto per una pena residua da eseguire nella misura di tre anni bensì per una pena detentiva irrogata non superiore a tre anni. 
Il decreto legge n. 92 ha introdotto anche l'articolo 35 ter nell'O.P. avente ad oggetto i rimedi risarcitori. La sentenza Torreggiani aveva infatti evidenziato che nell'ordinamento giuridico italiano non era previsto il reclamo giurisdizionale e nemmeno la possibilità di ottenere un indennizzo per il pregiudizio subito.
I rimedi risarcitori contemplati da questa norma sono di due tipi: il primo consiste in una riduzione della pena residua da scontare in misura di un giorno ogni dieci giorni di pena espiata in condizioni di detenzione inumane e degradanti non inferiori comunque a quindici giorni. Se il numero dei giorni da detrarre risulta superiore al residuo pena da espiare, è prevista la corresponsione di 8 euro a titolo di risarcimento del danno per ogni giorno in cui ha subito la violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo a causa del sovraffollamento carcerario. Se invece il periodo del pregiudizio subito in carcere è inferiore a quindici giorni, verrà corrisposta direttamente la somma di denaro indicata.
Per chi invece ha terminato di scontare la condanna ovvero ha subito un periodo di custodia cautelare in carcere non computabile nella pena da eseguire, è prevista la corresponsione di 8 euro a titolo di risarcimento del danno per ogni giorno in cui ha subito tal pregiudizio.

Chi può avanzare istanza?
L'istanza può essere avanzata personalmente dal detenuto ristretto in carcere ovvero dal suo difensore munito di procura speciale  


Qual è l'autorità giudiziaria competente a decidere sull'istanza risarcitoria ?
Il detenuto deve inviare la richiesta risarcitoria mediante reclamo al magistrato di sorveglianza competente per l'istituto penitenziario in cui è recluso.
Nel caso in cui l'istante, ancorché ristretto in carcere, non sia più sottoposto ad un trattamento inumano e degradante, ovvero sia stato nel frattempo rimesso in libertà (compresa la concessione di una misura alternativa la detenzione) deve rivolgere la domanda al tribunale civile competente per la residenza.

Sono previsti termini e/o decadenze per presentare istanza?
Da questo punto di vista la nuova norma è solo apparentemente chiara: se da un lato prescrive espressamente per la persona non più detenuta in carcere un termine di sei mesi, che decorre dal momento in cui ha finito di espiare la sua pena, dall'altro nulla dice per coloro che pur detenuti abbiano ottenuto un miglioramento della loro condizione. Di fatto, la magistratura di sorveglianza si è orientata uniformemente sul principio dell'attualità del pregiudizio, che deve sussistere sia al momento della presentazione del reclamo che nel momento della decisione: in quest'ultimo caso, se il pregiudizio nelle more dell'istruttoria è venuto meno, il ricorrente viene rimesso in termini per presentare ricorso al tribunale civile. Il che, evidentemente, incide molto su modalità e tempi del c.d. ristoro.
La norma non prevede invece alcun termine di prescrizione.
Il decreto legge n. 92 ha fissato un termine di sei mesi dal momento della sua entrata in vigore (vale a dire il 28 dicembre 2014 dato che è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 28 giugno 2014) per tutti coloro che avevano subito in passato tali condizioni di detenzione. Ma va subito detto che questo termine in realtà è stato di soli quattro mesi, tenuto conto della data di pubblicazione della legge di conversione (20 agosto 2014). Inoltre, non è stato fissato un termine iniziale di decorrenza: in teoria anche la richiesta di risarcimento in relazione ad una detenzione subita in tempi remoti in violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo potrebbe essere oggetto del ricorso ex articolo 35 ter O.P.; ciò però potrebbe confliggere con le norme del codice civile in materia di prescrizioni dei diritti.

Quali sono i "numeri" di questo contenzioso? Sono state molte le istanze?
Sono moltissimi i reclami presentati al magistrato di sorveglianza, ed il dato numerico parte sicuramente da quel gruppo di 3.500 ricorsi pendenti innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo e dichiarati irricevibili tra il mese di settembre ed il mese di novembre 2014 alla luce del decreto legge n. 92. Se però la normativa introdotta dovesse rivelarsi inefficace, la questione dovrà tornare a essere sottoposta alla CEDU.
Pochissimi invece i reclami presentati al tribunale civile, sia per la complessità della procedura sia per i costi (seppur limitati) da sostenere per il contributo unificato.   


Quali sono le difficoltà collegate alla presentazione dei ricorsi da parte dei detenuti e ai tempi delle decisioni ?
L'obiettivo prefissato dalla nuova normativa (sollecitata per non dire intimata dalla Corte di Strasburgo) risulta difficilmente raggiungibile. E questa appare una valutazione ottimistica. La prassi ha infatti già evidenziato la criticità del sistema.
Il reclamo presentato al magistrato di sorveglianza si fonda sulla probatio diabolica che incombe sul detenuto, che deve rappresentare in modo minuzioso il pregiudizio asseritamente sofferto, pena l'inammissibilità dell'atto di doglianza. Se il detenuto riesce ad assolvere a tale onere probatorio, il reclamo impatta con i dati e le notizie fornite dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (DAP) e dai Direttori degli Istituti Penitenziari chiamati in causa, che sono normalmente contrastanti con quanto lamentato dal detenuto. Si deve poi tener conto che basta un trasferimento temporaneo in altra cella, o in altra struttura, coevo al momento della decisione per rendere il pregiudizio non più attuale, con conseguente inammissibilità del ricorso ed eventuale rimessione in termini per riassumerlo innanzi al giudice civile nel termine di sei mesi. Ciò però non è esplicitamente previsto dall'articolo 35 ter O.P. e al momento si ignora quale potrà essere l'orientamento prevalente.
Per quanto riguarda invece il ricorso innanzi al tribunale civile (esperibile sia dai liberi che dai detenuti per i quali non è più attuale la violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo), la complessità della procedura (a cominciare dalla redazione telematica della nota di iscrizione a ruolo) rende di fatto irrinunciabile l'intervento dell'avvocato. Dal punto di vista probatorio, è poi praticamente obbligatorio fornire innanzitutto la certificazione storica delle detenzioni subite, e questo è il primo grande ostacolo, perché occorre molto tempo per ottenerla. Poi bisogna redigere il ricorso entro il termine di sei mesi dalla fine del pregiudizio. Questo termine è però opinabile, perché non è agevole individuarlo a meno che non sia terminata l'espiazione della pena. Ricordiamo che la sentenza Torreggiani non ha ad oggetto soltanto il sovraffollamento carcerario ma anche le condizioni di detenzione, la qualità delle infrastrutture e dei servizi in carcere. Il ricorso deve essere poi depositato nella cancelleria del tribunale mediante l'iscrizione a ruolo corredato di tutta la documentazione necessaria. Le comunicazioni successive della cancelleria del tribunale vengono inviate mediante posta elettronica certificata. Sarebbe stato dunque opportuno prevedere l'obbligatorietà dell'assistenza dell'avvocato per garantire effettivamente il detenuto ricorrente, e non soltanto la facoltà di intervento di quest'ultimo previo conferimento di una procura speciale ad hoc. Infine la problematica relativa ai costi del contributo unificato, di entità elevata se la doglianza riguarda lunghi periodi di detenzione, è stata sicuramente un deterrente per molti detenuti in relazione alle ridotte probabilità di successo di tale ricorso. C'è in effetti la possibilità di chiedere l' ammissione al patrocinio a spese dello Stato da parte di coloro che si trovano nelle condizioni all'uopo normativamente previste, ma la procedura rimane complessa, soprattutto per la documentazione a corredo che deve essere prodotta, e di non veloce risoluzione.                   
Il sentire diffuso è di essere di fronte ad un rimedio risarcitorio inefficace che avrà come ineludibile conseguenza, oltre l'aumento del carico di lavoro dei magistrati, la riproposizione di innumerevoli ricorsi alla CEDU. E l'ipotizzata maggiore tutela dei diritti del detenuto rischia di risolversi in una lunga posticipazione dell'attesa, e della speranza, di ottenere giustizia in relazione all'avvenuta la violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

Ci sono già decisioni?
I magistrati di sorveglianza hanno già emesso molte decisioni, rigettando la maggior parte dei reclami: tale diniego è stato fondato essenzialmente sulla base delle informazioni fornite da Direttori degli Istituti Penitenziari in relazione ai numeri del sovraffollamento, alla metratura delle celle, alla qualità dei servizi e delle infrastrutture, che avrebbero smentito quanto denunciato dai ricorrenti. In altri casi hanno dichiarato non luogo a provvedere per essere venuta meno l'attualità del pregiudizio.
Non si hanno ancora notizie, invece, dei pochi ricorsi presentati al giudice civile, per i quali è in corso l'istruttoria, vale a dire la richiesta di informazioni al DAP. Certo, tutto lascia presupporre che l'esito non sarà differente: si tratta sempre, infatti, di porre a confronto le lamentele dei detenuti con quanto contrariamente affermato dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria.
In conclusione, al momento sembra che il grave ed evidente problema sistemico, strutturale e di sovraffollamento accertato dai Giudici di Strasburgo non sia in realtà tale, nonostante che avesse condotto alla dichiarazione dello stato di emergenza in Italia nel gennaio 2010, prorogato poi sino al dicembre 2012 e ribadito dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel noto messaggio inviato alle Camere del Parlamento Italiano in data 8 ottobre 2013.

Emanuela Strina e Andrea Del Corno, avvocati in Milano


martedì 10 marzo 2015

LA MANCATA APPLICAZIONE DELL’ART. 51 BIS O.P. COSTA UNA NOTTE IN CARCERE

Da martedì a sabato: cronaca di un arresto che si poteva e doveva evitare.

Omar è un giovane cittadino italiano. Da marzo 2010 ha in esecuzione una pena di sei anni; ne ha trascorsi quattro in regime detentivo, usufruendo di numerosi permessi e dal febbraio 2014 ha potuto svolgere attività lavorativa esterna al carcere (articolo 21 O.P.) presso una Onlus di Milano.

Nel dicembre 2014, dopo un primo provvedimento negativo del tribunale di sorveglianza di gennaio, Omar ha ottenuto di essere affidato in prova al servizio sociale, potendo così scontare il residuo di pena fuori dal carcere.

Nel provvedimento di concessione della misura alternativa, il tribunale di sorveglianza ha infatti considerato il lungo e positivo percorso intramurario effettuato, il contesto famigliare, il "regolare andamento" dei permessi premio, il lavoro all'esterno del carcere e l'approssimarsi del fine pena; ha quindi  ritenuto che la misura dell'affidamento in prova fosse "idonea alle esigenze di reinserimento e rieducazione e per la salvaguardia della prevenzione sociale".
La decisione del tribunale di sorveglianza è stato un vero e proprio riconoscimento sia dell'impegno profuso da Omar sul piano del reinserimento sia della politica attuata nel carcere di Bollate che offre un progetto di risocializzazione efficiente e  apprezzato.

Da dicembre 2014, Omar ha dunque proseguito il suo percorso in regime di affidamento, rientrando nell'abitazione familiare.

Il primo martedì di marzo 2015, il pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni di Milano ha notificato al difensore di Omar un ordine di carcerazione in relazione a una condanna di un anno e mezzo, confermata dalla Corte di Cassazione proprio nel dicembre 2014, per fatti risalenti a quattro anni prima, e che non consentiva al magistrato di sospendere l'esecuzione ai sensi del 5° comma dell'articolo 656 c.p.p.. Omar rischiava di entrare nuovamente in carcere, anche se il disposto dell'articolo 51 bis O.P. introdotto dal decreto legge n. 146 del 2013 (convertito con modificazioni dalla legge n. 10 del 2014) avrebbe potuto impedirlo.

La norma stabilisce infatti che "quando, durante l'attuazione dell'affidamento in prova al servizio sociale /…/ sopravviene un titolo di esecuzione di altra pena detentiva, il pubblico ministero informa immediatamente il magistrato di sorveglianza, formulando contestualmente le proprie richieste".  Se il magistrato di sorveglianza rileva, tenuto conto del cumulo delle pene, che permangono le condizioni previste per l'affidamento in prova (ossia che la pena da eseguire non supera i tre anni), dispone con ordinanza la prosecuzione della misura in corso; in caso contrario, ne dispone la cessazione.

Ma il pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni ha ordinato la carcerazione di Omar senza sottoporre la questione al magistrato di sorveglianza.

Il difensore si è immediatamente accorto che l'articolo 51 bis O.P.  non era neppure menzionato nell'ordine di carcerazione e, confidando che esso non venisse eseguito sollecitamente, la mattina successiva alla notifica ha depositato due istanze: una al pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni affinché adottasse ogni provvedimento utile alla sospensione dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione e richiedesse al magistrato di sorveglianza la prosecuzione dell'affidamento in corso con riferimento al nuovo titolo detentivo; l'altra al magistrato di sorveglianza affinché disponesse tale ultima prosecuzione.

Alla fine della mattinata di mercoledì il magistrato di sorveglianza ha emesso un provvedimento di non luogo a provvedere ritenendo che competesse al pubblico ministero chiedere la prosecuzione dell'affidamento, in quanto non prevista un'ipotesi di istanza di parte; il pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni, invece, dopo aver esaminato il provvedimento emesso dal magistrato di sorveglianza  ha rivolto la propria istanza al magistrato di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni, il quale ultimo ha osservato che l'istanza avrebbe dovuto essere indirizzata al magistrato di sorveglianza "degli adulti", che non ha comunque declinato la propria competenza nel provvedimento di non luogo a provvedere.

Giovedì sembrava che lo stallo potesse essere superato con l'emissione da parte del pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni di un provvedimento di cumulo delle pene che debbono essere eseguite e una richiesta di prosecuzione della misura in corso al magistrato di sorveglianza "degli adulti". C'era tuttavia una difficoltà di compilazione del cosiddetto cumulo, perché i sistemi informatici della procura del tribunale per i minorenni non sono integrati con quelli della procura del tribunale ordinario; problema risolto dalla difesa di Omar che ha inviato alla cancelleria competente copia delle sentenze che dovevano essere indicate nel provvedimento.

Venerdì mattina, prima di mezzodì, il pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni ha trasmesso via fax al magistrato di sorveglianza il provvedimento di cumulo con la richiesta di prosecuzione della misura. Ma il magistrato di sorveglianza non ha provveduto e venerdì sera agenti della questura di Milano hanno eseguito l'ordine di carcerazione traendo in arresto Omar, nonostante il difensore abbia potuto spiegare quale fosse la situazione.

Sabato mattina, il difensore si è rivolto al magistrato di sorveglianza di turno, il quale ha provveduto in via d'urgenza, applicando l'articolo 51 bis O.P. e disponendo la prosecuzione dell'affidamento in corso, con le medesime modalità e prescrizioni stabilite a suo tempo dal tribunale di sorveglianza.
Omar è stato scarcerato poco prima delle 14.00 del medesimo sabato, dopo aver trascorso una notte a San Vittore e parte della mattina al carcere minorile Beccaria dove era stato trasferito.

Inevitabile il rammarico del mancato esame del caso, che avrebbe consentito l'immediata applicazione dell'articolo 51 bis O.P. e avrebbe evitato un nuovo ingresso in carcere, anche se solo per poche ore.

Peccato! Questa volta, il sistema giustizia non ha funzionato e ha dato prova di scarsa coerenza e credibilità, soprattutto se si considera il ben diverso rigore con cui sono state valutate le istanze di affidamento, la prima delle quali era stata rigettata perché vi era necessità di verificare la prosecuzione del cammino che Omar aveva intrapreso verso il reinserimento sociale, cosicché fosse "evidente e sicuro" che il periodo di recidiva fosse esaurito e che lo stesso potesse "essere definitivamente avviato al percorso volto alla sua rieducazione in funzione di risocializzazione in un contesto che realizza maggiori libertà di movimento ed autodeterminazione", condizioni entrambe che sono state accertate e riscontrate sussistenti nel dicembre 2014 e di cui l'ordinanza di affidamento dà atto.

La vicenda di Omar è emblematica del mancato dialogo tra la procura del tribunale per i minorenni e il tribunale di sorveglianza; ciò ha rischiato di provocare l'interruzione del percorso rieducativo fondato sul rapporto fiduciario che si instaura fra istituzioni e detenuto e che in nessun caso dovrebbe essere pregiudicato dalla mancata applicazione di una norma creata anzi per preservare quel rapporto e il lavoro fatto.

Emanuela Strina e Andrea Del Corno, avvocati in Milano