venerdì 13 marzo 2015

SOVRAFFOLLAMENTO DELLE CARCERI: I RIMEDI RISARCITORI PER I DETENUTI


Con la nota sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sono stati sospesi tutti i ricorsi proposti dai detenuti italiani in relazione all'articolo 3 CEDU per le condizioni disumane e degradanti della detenzione subita nella nostre carceri ed è stato concesso allo Stato italiano un anno di tempo (a partire dal maggio 2013, posticipato poi al giugno 2015) per adottare le misure necessarie a porre rimedio alla situazione di sovraffollamento carcerario.
Il decreto legge 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014 n. 117, ha inserito nell'ordinamento  penitenziario (legge 26 luglio 1974, n. 354) i "rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati". Ne parliamo con Walter De Agostino, avvocato in Roma, che da tempo si occupa di queste tematiche affrontandole innanzi all'Autorità Giudiziaria Italiana nonché alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo.

Qual è il pregiudizio per il quale si può avanzare istanza risarcitoria ?
Con il decreto legge n. 92 è stata introdotta la possibilità per il detenuto di richiedere, mediante reclamo al magistrato di sorveglianza, il risarcimento del danno per i periodi di detenzione in carcere in cui ha subito un trattamento inumano e degradante come cristallizzato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo.
A partire dalla sentenza Torreggiani ed altri del 9 gennaio 2013, è stata infatti accertata la violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo in quanto i ricorrenti (detenuti in vari istituti penitenziari italiani) hanno dimostrato di aver subito un pregiudizio morale in relazione alle precarie condizioni di detenzione dovute in particolare al sovraffollamento carcerario, alle dimensioni delle celle, alle condizioni fatiscenti delle infrastrutture degli istituti di pena ed alla carenza dei servizi.
Con questa pronuncia, emessa con la procedura della sentenza pilota, è stata affermata la responsabilità dello Stato Italiano, che è stato condannato a corrispondere ai ricorrenti, a titolo di equa riparazione, somme di denaro di diversa entità (a secondo delle differenti durate del pregiudizio subito) ed è stata formalmente dichiarata l'esistenza di un problema sistemico del sistema carcerario italiano.
Per tali motivi lo Stato Italiano è stato altresì invitato ad adottare entro il termine di un anno da quando la sentenza sarà diventata definitiva (28 maggio 2014) provvedimenti legislativi finalizzati sia a garantire ai detenuti una effettiva tutela giurisdizionale dei loro diritti sia ad introdurre dei rimedi risarcitori nonché misure idonee a diminuire il sovraffollamento carcerario.

In cosa consistono i rimedi introdotti dal decreto legge n. 92?
Innanzitutto con il decreto legge n. 92 sono state introdotte alcune norme tendenti a diminuire l'applicazione della custodia cautelare in carcere ovvero degli arresti domiciliari, prevedendo, in particolare, il divieto di applicazione di queste misure cautelari nell'ipotesi in cui il giudice ritenga che, all'esito del giudizio, possa essere concessa la sospensione condizionale della pena ovvero la pena detentiva da eseguire non sia superiore a tre anni.
Con la legge di conversione n. 117/2014 sono state però introdotte delle modifiche che hanno limitato l'applicazione di tale disposizione, in particolare prevedendo l'esclusione per i procedimenti aventi ad oggetto i delitti di cui agli articoli 423 bis, 572, 612 bis e 624 bis c.p. nonché i delitti contemplati nell'articolo 4 bis della legge 26 luglio 1974, n. 354 (O.P.) ovvero quando, "rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell'art. 284 comma 1 (c.p.p.) ".
La normativa è stata poi modificata anche nella parte relativa all'entità della condanna, non prevedendo più il divieto per una pena residua da eseguire nella misura di tre anni bensì per una pena detentiva irrogata non superiore a tre anni. 
Il decreto legge n. 92 ha introdotto anche l'articolo 35 ter nell'O.P. avente ad oggetto i rimedi risarcitori. La sentenza Torreggiani aveva infatti evidenziato che nell'ordinamento giuridico italiano non era previsto il reclamo giurisdizionale e nemmeno la possibilità di ottenere un indennizzo per il pregiudizio subito.
I rimedi risarcitori contemplati da questa norma sono di due tipi: il primo consiste in una riduzione della pena residua da scontare in misura di un giorno ogni dieci giorni di pena espiata in condizioni di detenzione inumane e degradanti non inferiori comunque a quindici giorni. Se il numero dei giorni da detrarre risulta superiore al residuo pena da espiare, è prevista la corresponsione di 8 euro a titolo di risarcimento del danno per ogni giorno in cui ha subito la violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo a causa del sovraffollamento carcerario. Se invece il periodo del pregiudizio subito in carcere è inferiore a quindici giorni, verrà corrisposta direttamente la somma di denaro indicata.
Per chi invece ha terminato di scontare la condanna ovvero ha subito un periodo di custodia cautelare in carcere non computabile nella pena da eseguire, è prevista la corresponsione di 8 euro a titolo di risarcimento del danno per ogni giorno in cui ha subito tal pregiudizio.

Chi può avanzare istanza?
L'istanza può essere avanzata personalmente dal detenuto ristretto in carcere ovvero dal suo difensore munito di procura speciale  


Qual è l'autorità giudiziaria competente a decidere sull'istanza risarcitoria ?
Il detenuto deve inviare la richiesta risarcitoria mediante reclamo al magistrato di sorveglianza competente per l'istituto penitenziario in cui è recluso.
Nel caso in cui l'istante, ancorché ristretto in carcere, non sia più sottoposto ad un trattamento inumano e degradante, ovvero sia stato nel frattempo rimesso in libertà (compresa la concessione di una misura alternativa la detenzione) deve rivolgere la domanda al tribunale civile competente per la residenza.

Sono previsti termini e/o decadenze per presentare istanza?
Da questo punto di vista la nuova norma è solo apparentemente chiara: se da un lato prescrive espressamente per la persona non più detenuta in carcere un termine di sei mesi, che decorre dal momento in cui ha finito di espiare la sua pena, dall'altro nulla dice per coloro che pur detenuti abbiano ottenuto un miglioramento della loro condizione. Di fatto, la magistratura di sorveglianza si è orientata uniformemente sul principio dell'attualità del pregiudizio, che deve sussistere sia al momento della presentazione del reclamo che nel momento della decisione: in quest'ultimo caso, se il pregiudizio nelle more dell'istruttoria è venuto meno, il ricorrente viene rimesso in termini per presentare ricorso al tribunale civile. Il che, evidentemente, incide molto su modalità e tempi del c.d. ristoro.
La norma non prevede invece alcun termine di prescrizione.
Il decreto legge n. 92 ha fissato un termine di sei mesi dal momento della sua entrata in vigore (vale a dire il 28 dicembre 2014 dato che è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 28 giugno 2014) per tutti coloro che avevano subito in passato tali condizioni di detenzione. Ma va subito detto che questo termine in realtà è stato di soli quattro mesi, tenuto conto della data di pubblicazione della legge di conversione (20 agosto 2014). Inoltre, non è stato fissato un termine iniziale di decorrenza: in teoria anche la richiesta di risarcimento in relazione ad una detenzione subita in tempi remoti in violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo potrebbe essere oggetto del ricorso ex articolo 35 ter O.P.; ciò però potrebbe confliggere con le norme del codice civile in materia di prescrizioni dei diritti.

Quali sono i "numeri" di questo contenzioso? Sono state molte le istanze?
Sono moltissimi i reclami presentati al magistrato di sorveglianza, ed il dato numerico parte sicuramente da quel gruppo di 3.500 ricorsi pendenti innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo e dichiarati irricevibili tra il mese di settembre ed il mese di novembre 2014 alla luce del decreto legge n. 92. Se però la normativa introdotta dovesse rivelarsi inefficace, la questione dovrà tornare a essere sottoposta alla CEDU.
Pochissimi invece i reclami presentati al tribunale civile, sia per la complessità della procedura sia per i costi (seppur limitati) da sostenere per il contributo unificato.   


Quali sono le difficoltà collegate alla presentazione dei ricorsi da parte dei detenuti e ai tempi delle decisioni ?
L'obiettivo prefissato dalla nuova normativa (sollecitata per non dire intimata dalla Corte di Strasburgo) risulta difficilmente raggiungibile. E questa appare una valutazione ottimistica. La prassi ha infatti già evidenziato la criticità del sistema.
Il reclamo presentato al magistrato di sorveglianza si fonda sulla probatio diabolica che incombe sul detenuto, che deve rappresentare in modo minuzioso il pregiudizio asseritamente sofferto, pena l'inammissibilità dell'atto di doglianza. Se il detenuto riesce ad assolvere a tale onere probatorio, il reclamo impatta con i dati e le notizie fornite dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (DAP) e dai Direttori degli Istituti Penitenziari chiamati in causa, che sono normalmente contrastanti con quanto lamentato dal detenuto. Si deve poi tener conto che basta un trasferimento temporaneo in altra cella, o in altra struttura, coevo al momento della decisione per rendere il pregiudizio non più attuale, con conseguente inammissibilità del ricorso ed eventuale rimessione in termini per riassumerlo innanzi al giudice civile nel termine di sei mesi. Ciò però non è esplicitamente previsto dall'articolo 35 ter O.P. e al momento si ignora quale potrà essere l'orientamento prevalente.
Per quanto riguarda invece il ricorso innanzi al tribunale civile (esperibile sia dai liberi che dai detenuti per i quali non è più attuale la violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo), la complessità della procedura (a cominciare dalla redazione telematica della nota di iscrizione a ruolo) rende di fatto irrinunciabile l'intervento dell'avvocato. Dal punto di vista probatorio, è poi praticamente obbligatorio fornire innanzitutto la certificazione storica delle detenzioni subite, e questo è il primo grande ostacolo, perché occorre molto tempo per ottenerla. Poi bisogna redigere il ricorso entro il termine di sei mesi dalla fine del pregiudizio. Questo termine è però opinabile, perché non è agevole individuarlo a meno che non sia terminata l'espiazione della pena. Ricordiamo che la sentenza Torreggiani non ha ad oggetto soltanto il sovraffollamento carcerario ma anche le condizioni di detenzione, la qualità delle infrastrutture e dei servizi in carcere. Il ricorso deve essere poi depositato nella cancelleria del tribunale mediante l'iscrizione a ruolo corredato di tutta la documentazione necessaria. Le comunicazioni successive della cancelleria del tribunale vengono inviate mediante posta elettronica certificata. Sarebbe stato dunque opportuno prevedere l'obbligatorietà dell'assistenza dell'avvocato per garantire effettivamente il detenuto ricorrente, e non soltanto la facoltà di intervento di quest'ultimo previo conferimento di una procura speciale ad hoc. Infine la problematica relativa ai costi del contributo unificato, di entità elevata se la doglianza riguarda lunghi periodi di detenzione, è stata sicuramente un deterrente per molti detenuti in relazione alle ridotte probabilità di successo di tale ricorso. C'è in effetti la possibilità di chiedere l' ammissione al patrocinio a spese dello Stato da parte di coloro che si trovano nelle condizioni all'uopo normativamente previste, ma la procedura rimane complessa, soprattutto per la documentazione a corredo che deve essere prodotta, e di non veloce risoluzione.                   
Il sentire diffuso è di essere di fronte ad un rimedio risarcitorio inefficace che avrà come ineludibile conseguenza, oltre l'aumento del carico di lavoro dei magistrati, la riproposizione di innumerevoli ricorsi alla CEDU. E l'ipotizzata maggiore tutela dei diritti del detenuto rischia di risolversi in una lunga posticipazione dell'attesa, e della speranza, di ottenere giustizia in relazione all'avvenuta la violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

Ci sono già decisioni?
I magistrati di sorveglianza hanno già emesso molte decisioni, rigettando la maggior parte dei reclami: tale diniego è stato fondato essenzialmente sulla base delle informazioni fornite da Direttori degli Istituti Penitenziari in relazione ai numeri del sovraffollamento, alla metratura delle celle, alla qualità dei servizi e delle infrastrutture, che avrebbero smentito quanto denunciato dai ricorrenti. In altri casi hanno dichiarato non luogo a provvedere per essere venuta meno l'attualità del pregiudizio.
Non si hanno ancora notizie, invece, dei pochi ricorsi presentati al giudice civile, per i quali è in corso l'istruttoria, vale a dire la richiesta di informazioni al DAP. Certo, tutto lascia presupporre che l'esito non sarà differente: si tratta sempre, infatti, di porre a confronto le lamentele dei detenuti con quanto contrariamente affermato dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria.
In conclusione, al momento sembra che il grave ed evidente problema sistemico, strutturale e di sovraffollamento accertato dai Giudici di Strasburgo non sia in realtà tale, nonostante che avesse condotto alla dichiarazione dello stato di emergenza in Italia nel gennaio 2010, prorogato poi sino al dicembre 2012 e ribadito dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel noto messaggio inviato alle Camere del Parlamento Italiano in data 8 ottobre 2013.

Emanuela Strina e Andrea Del Corno, avvocati in Milano


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