martedì 28 luglio 2015

FALLIMENTO: comportamenti illegittimi degli organi sociali, danno risarcibile e criteri di liquidazione.


Con la sentenza n. 9100 del 6 maggio 2015 la cassazione affronta a sezioni unite civili il tema dei criteri di liquidazione del danno subito dalla curatela che esercita l'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore.

Le considerazioni svolte nella pronuncia valgono anche per i casi in cui la curatela si costituisca parte civile nei giudizi penali per bancarotta, e ciò sia quando il giudice decida con condanna generica (articolo 539, comma 1, codice di procedura penale) rinviando alla sede civile per la liquidazione del danno, sia quando provveda direttamente alla liquidazione.

Che si tratti di una causa civile o di una penale, infatti, all' affermazione di responsabilità dell' amministratore (e, più in generale, degli organi sociali) consegue la questione di come operare la quantificazione del danno verificatosi in relazione ai comportamenti illegittimi oggetto di giudizio.

Le sezioni unite statuiscono che "l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento".

Nei giudizi di bancarotta, la curatela che si costituisca parte civile è obbligata a far riferimento al capo di imputazione e a mettere in evidenza il rapporto di causalità esistente fra le condotte contestate all'imputato (o agli imputati) e il pregiudizio subito dalla società fallita.

Una volta individuato il danno, il criterio da adottare ai fini della liquidazione del medesimo presuppone "l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell' amministratore". Esemplificando, nei casi in cui si debba quantificare il danno conseguente alla distrazione di beni aziendali, il valore di tali beni costituisce criterio idoneo a orientare la decisione del giudice.

Ma nelle ipotesi in cui la condotta contestata (o l'inadempimento addotto in sede civile) si riferisca alla bancarotta c.d. documentale (o alla mancanza e/o irregolare tenuta di scritture contabili della società), il danno che ne deriva non può essere individuato e liquidato ex se "in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare", poiché tale criterio potrà essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, "ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto".

Questo è l'approdo cui è giunta la corte dopo aver ripercorso le tappe via via raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità. Come è ricordato nella sentenza in esame, infatti, la possibilità che il danno risarcibile sia identificato nella differenza tra il passivo e l'attivo accertati in sede fallimentare era stata affermata in epoca risalente (Cass. n. 1281 del 1977), in un caso nel quale all'amministratore era stato contestato di aver violato il divieto di compiere nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, consistita nella perdita di oltre un  terzo del capitale sociale e nella riduzione di questo al di sotto del minimo legale. Anni dopo Cass. n. 6493 del 1985 era tornata ad approvare l'utilizzo di tale criterio in una fattispecie in cui l'addebito mosso agli amministratori consisteva nel non aver tenuto la contabilità sociale o nell'averla tenuta in modo sommario e non intellegibile.

Nel decennio successivo, la giurisprudenza mutava orientamento, sulla scorta delle critiche svolte dalla dottrina riguardo l'adozione del criterio differenziale: Cass. n. 9252 del 1997 afferma infatti che il danno che gli amministratori e i sindaci sono tenuti a risarcire quando abbiano violato o non vigilato sul dovere di non intraprendere nuove operazioni in presenza di una causa di scioglimento della società, non si identifica automaticamente nella differenza tra passivo e attivo accertati in sede fallimentare, ma possa essere commisurato a tale differenza, in mancanza di prova di un maggior pregiudizio, solo se da detta violazione sia dipeso il dissesto economico ed il conseguente fallimento della società. Cass. n. 10488 del 1998  perviene alla conclusione che, in azioni di tal genere, il danno non possa essere liquidato alla stregua del citato criterio differenziale, ma vada determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle  violazioni contestate.

Quest'ultimo orientamento veniva poi confermato da Cass. n. 1375 del 2000 che precisava come, in casi simili, il danno potesse essere rappresentato dalla differenza tra passivo e attivo patrimoniale della società solo se il dissesto economico e il conseguente fallimento si fossero verificati per fatto imputabile agli amministratori, liquidatori o sindaci convenuti in giudizio; e che non bastava a configurare la responsabilità di costoro che vi fosse stato un disavanzo fallimentare, poiché occorreva dimostrare la specifica violazione dei doveri loro imposti dalla legge, dato che la prova della violazione di tali obblighi non avrebbe potuto giustificare la condanna al risarcimento del danno se il curatore non avesse dato prova che quelle violazioni avevano cagionato un pregiudizio alla società.

La giurisprudenza successiva seguiva quest'ultimo filone decisionale. Cass. nn. 2538 e 3032 del 2005 insistevano infatti nell'affermare che il danno in questione non poteva essere commisurato alla differenza tra passivo e attivo accertati in sede concorsuale sia perché lo sbilancio patrimoniale della società insolvente avrebbe potuto avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia perché questo criterio contrastava con il principio civilistico che impone di accertare l'esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima e il danno. In queste pronunce, è tuttavia precisato che il criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l'impossibilità di ricostruire i dati con l'analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili ai comportamenti degli organi sociali; in tal caso però il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonché la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto, soprattutto quando la condotta non sia temporalmente vicina all'apertura della procedura concorsuale.

Nel corso dell'anno 2011 vi sono state invece due pronunce (Cass. nn. 5876 e 7606) in cui, pur muovendosi dalla premessa secondo cui nell'azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all'attore dare prova dell'esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, si è reputato che si verifichi un'inversione dell'onere della prova quando l'assoluta mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità; in questo caso – si è aggiunto – la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale.

Le sezioni unite civili sono intervenute nel caso in cui la curatela adduceva la mancanza o irregolarità della contabilità sociale, intesa quale inadempimento del convenuto idoneo a porsi come causa del danno di cui pretendeva il risarcimento. Proprio su questa allegazione si incentra la motivazione della corte, che sostiene come la mancanza o l' irregolarità della contabilità sociale "non sono legate da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare. Ed allora il fatto che l'amministratore sia venuto meno ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione della contabilità non giustifica che venga posto a suo carico l'onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale dall'inadempimento, da parte sua, di ulteriori ma non meglio specificati obblighi."

Secondo la corte, poi, non rileva che il mancato rinvenimento della contabilità potrebbe impedire al curatore di individuare altri eventuali inadempimenti ascrivibili all'amministratore, potenzialmente idonei – quelli sì – a porsi come causa del deficit patrimoniale fatto registrare dalla società fallita. L' impossibilità di stabilire ciò di cui gli organi della società fallita potrebbero essersi resi responsabili non giustificherebbe infatti comunque la proposizione alla cieca di un'azione di responsabilità, "e tanto meno il conseguente addebito agli amministratori di un deficit patrimoniale che nulla in tal caso consentirebbe di porre in rapporto di causa ad effetto con comportamenti dell'amministratore impossibili persino da individuare."

Postulare infatti che "l'amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società solo perché non ha correttamente adempiuto l'obbligo di conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare, equivale, in tale situazione, ad attribuire al risarcimento del danno così identificato  una funzione palesemente sanzionatoria (che, in ipotesi di condotta dolosa, rischierebbe almeno in parte di sovrapporsi alle sanzioni penali già contemplate dagli artt. 216, primo comma, n. 2, e 223 l.f.)."

La corte osserva al riguardo che anche se negli ultimi decenni sono state introdotte disposizioni volte a dare un connotato latu sensu sanzionatorio al risarcimento, "non lo si può ammettere al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dal secondo comma dell'art. 25 Cost., nonché dall'art. 7 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali."

Resta fermo che, seguendo i principi generali, ove non fosse possibile arrivare a una quantificazione e una prova precisa del danno riconducibile a un determinato inadempimento (o condotta contestata), sarà tuttavia possibile chiedere che il giudice provveda alla liquidazione del danno in via equitativa, invocando l'articolo 1226 del codice civile. Il che non potrà però tradursi  nell'applicazione di un criterio arbitrario e richiede che siano comunque indicate le ragioni che non hanno consentito di accertare gli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto, nonché alla plausibilità logica del ricorso a detto criterio in rapporto alle circostanze del caso concreto, come si erano espresse le citate sentenze del 2005, nn. 2538 e 3032.

Emanuela Strina, avvocato in Milano

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venerdì 10 luglio 2015

SOSPENSIONE CON MESSA ALLA PROVA: UN CASO DI PROROGA DAL TRIBUNALE DI MILANO


La legge n. 67 del 2014, entrata in vigore il 17 maggio 2014, ha introdotto l'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (v. post 22 maggio 2014).

Le normativa prevede che il giudice stabilisca il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie imposti devono essere adempiuti.

Come previsto dall'articolo 464 quinquies, comma 1, codice di procedura penale (introdotto dall'articolo 4 della l. n. 67), il termine può essere prorogato una sola volta e solo per gravi motivi, su istanza dell'imputato.

Ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, il giudice può modificare le prescrizioni originarie, ferma restando la congruità delle nuove prescrizioni rispetto alle finalità della messa alla prova.

Pensando che possa suscitare interesse, pubblichiamo l'ordinanza del giudice di Milano che, dato analiticamente conto della normativa applicabile, ha prorogato il periodo di sospensione del procedimento disposto con il precedente provvedimento e ha modificato le prescrizioni già imposte limitatamente al tipo di prestazione non retribuita e all'ente di riferimento, tenuto conto dell'infortunio sul lavoro subito dall'imputato, che a causa di questo era stato impossibilitato a eseguire il programma di trattamento originariamente elaborato.

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