venerdì 1 novembre 2013

MALTRATTAMENTI IN CARCERE

La vicenda evoca uno scenario odioso, che vorremmo fosse collocato al di fuori dei confini nazionali. Ma visto che non è così e che non vi sono zone franche dal male, in un momento in cui il tema del sovraffollamento carcerario va per la maggiore, è necessario che la storia sottesa alla pronuncia del 21 maggio 2012 n. 30780 della Corte di Cassazione - di cui stiamo per dar conto - esca dalle pagine delle riviste specialistiche e si renda conoscibile a un contesto più ampio.

Due agenti di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Asti vengono tratti a giudizio perché in concorso fra loro, abusando dei poteri inerenti alla loro funzione, maltrattavano un detenuto ristretto in regime di detenzione carceraria, affidato alla loro vigilanza e custodia, sottoponendolo a un tormentoso e vessatorio regime di vita all'interno della struttura carceraria.

Tela di ragno
Secondo quanto si apprende dalla sentenza, i due agenti spogliavano completamente il detenuto e lo rinchiudevano in una cella senza vetri alle finestre (chiuse soltanto dopo circa un mese con cellophane), priva di materasso per il letto, di lavandino e di sedie o sgabelli, ove veniva lasciato (i primi giorni completamente nudo) per circa due mesi, razionandogli il cibo e fornendogli unicamente pane e acqua;  durante tale periodo  picchiavano il detenuto ripetutamente ed anche più volte al giorno, con calci pugni e schiaffi per tutto il corpo, fino a cagionargli lesioni personali (tra cui la frattura dell'ottava costola sinistra, ecchimosi diffuse in sede toracico-addominale di sinistra) da cui derivò una malattia giudicata guaribile in 20 giorni; in un'occasione uno dei due agenti strappò con le mani il "codino" che il detenuto si era fatto ai capelli. Analoga contestazione veniva mossa allo stesso agente (in concorso con altri) con riferimento ad altro detenuto.

In primo grado, il Tribunale di Asti in composizione monocratica dichiarava non doversi procedere nei confronti dei due imputati per estinzione del delitto di abuso di autorità contro arrestati e detenuti (art. 608 c.p.), così riqualificato il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi  (art. 572 c.p.) contestato nel capo di imputazione, a seguito del decorso  del termine per prescrizione.

All'esito di un' approfondita istruttoria, il Tribunale riteneva provato "al di là di ogni ragionevole dubbio" che: 
i) nel carcere di Asti era stata instaurata una prassi di maltrattamenti dei detenuti più "problematici";
ii) due detenuti subirono non solo singole vessazioni, ma una vera e propria tortura, durata per più giorni e posta in essere in modo scientifico e sistematico;
iii) i due agenti parteciparono con certezza a tutte o quasi tutte le vessazioni (fisiche, psicologiche e materiali).

Quanto alla qualificazione giuridica, il Tribunale osservava che i fatti avrebbero potuto essere agevolmente qualificati come tortura, se l'Italia non avesse omesso di dare attuazione nel nostro Paese alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, pur ratificata con la legge 3 novembre 1988. Poiché tuttavia tale fattispecie criminosa non è contemplata nel nostro ordinamento, il Tribunale escludeva che le condotte  dianzi descritte potessero integrare il reato di cui all'art. 572 c.p., ritenendo che le stesse dovessero essere ricondotte all'ipotesi di cui all'art. 608 c.p..

La pubblica accusa ha impugnato la sentenza con ricorso immediato per cassazione.
La Suprema Corte ha concordato sulla "penetrante critica svolta dal Pubblico Ministero alla conclusione cui è pervenuto il Tribunale in ordine alla qualificazione del fatto", riprendendo quanto in più occasioni affermato nella propria giurisprudenza, e cioè che anche le pratiche persecutorie realizzate fuori dal ristretto ambito familiare possono integrare il delitto di maltrattamenti all'interno di comunità in cui il rapporto tra agente e parte offesa assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti , dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall'esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica.

Con una pronuncia senza precedenti, la Suprema Corte ha riconosciuto così che il rapporto che si instaura fra agenti di polizia penitenziaria e detenuti all'interno di un carcere abbia natura para-familiare.  Prima di questa, infatti,  la Cassazione ha ritenuto di individuare gli elementi di tipicità della "famiglia" cui si riferisce il disposto dell'art. 572 c.p., oltreché nella c.d. famiglia di fatto, nel posto di lavoro (vedi post del 20 maggio 2013), nelle strutture per anziani e in un asilo nido.

La Cassazione ha inoltre affermato che il Tribunale avesse errato nel considerare che i comportamenti descritti nel capo di imputazione integrassero "esattamente quelli descritti dall'art. 608 c.p.", concludendo per l'integrazione di detto reato, ritenendo che tale norma si porrebbe in rapporto di specialità rispetto all'art. 572 c.p.c.. 

Secondo la Suprema Corte infatti l'art. 608 c.p. non è norma speciale rispetto alla fattispecie di maltrattamenti, poiché il reato di abuso di autorità contro arrestati e detenuti è di carattere istantaneo e speciale rispetto a quello, parimenti istantaneo, di abuso di mezzi di correzione e disciplina (art. 571 c.p.), ma non rispetto al reato di maltrattamenti previsto dall'art. 572 c.p., che "sanziona comportamenti abituali, caratterizzati da una serie indeterminata di atti di vessazione e umiliazione che manifestano l'esistenza di una direzione di volontà di cui i singoli episodi (d'ingiurie, percosse, lesioni etc), da valutare unitariamente, costituiscono l'espressione e in cui rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa la vita della parte offesa".

I delitti di cui agli artt. 572 e 608 c.p. (come quello di lesioni personali gravi)  possono pertanto concorrere nei casi di accertata protrazione delle condotte per un periodo di tempo significativo (come accaduto ai danni dei due detenuti del caso in esame, ristretti in isolamento per più giorni) integrando a tutti gli effetti i connotati dell'abitualità che caratterizza il reato di maltrattamenti.

Ancora una volta assistiamo alla versatilità dell' art. 572 c.p.,  norma che potremmo definire ''Fregoli'' in omaggio allo scomparso  comico trasformista: in presenza di particolari condizioni e circostanze che si possono configurare solo dopo un attento esame della relazione e della modalità di frequentazione tra le parti, ovvero il c.d. rapporto di natura parafamiliare, si pone come ago della bilancia, con inevitabile ''effetto domino'' sulla qualificazione giuridica del fatto.

Così la fattispecie può mutare e, da una iniziale accusa che richiama una certa ipotesi di reato, la decisione del Giudicante può pervenire ad altra qualificazione: mobbing che diviene ingiuria e minaccia  e viceversa...

La decisione degli Ermellini che abbiamo esaminato è certamente importante, perché allarga il campo di azione della norma (art. 572 c.p.); ma se da un lato il diritto segna un punto a suo favore, dall'altro la fattispecie che abbiamo descritto suona come un brutto segnale d'allarme.

La situazione carceraria e ormai diventata molto pesante e tutti avvertono la necessità di una radicale riforma, persino il Capo dello Stato ha invitato le forze politiche a risolvere rapidamente la questione, ricorrendo, se necessario, persino all'amnistia ed all'indulto (soluzioni alquanto opinabili sull'effettiva funzione deflattiva del sovraffollamento delle carceri).

Bisogna risolvere la situazione al più presto per evitare il moltiplicarsi di episodi come quello per il quale è stata emessa la sentenza che abbiamo commentato. Ma soprattutto, nell'immediata attualità occorre scongiurare il pericolo che si giunga ad episodi da Far West dove la giustizia privata si possa sostituire a quella del diritto, innescando una spirale di violenza senza ritorno, che nel nostro ordinamento giuridico non può, e non deve, avere legittimazione alcuna.

Emanuela Strina e Francesco Daddi, avvocati in Milano
Foto di Gianna Tarantino e titolo di Luigi Turinese


Per scaricare:
la sentenza della Cassazione clicca qui
la convenzione ONU sulla tortura clicca qui

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