Pur in assenza di una definizione legislativa di mobbing, il GUP di Milano ne ricava i tratti distintivi dalla Risoluzione del Parlamento Europeo A5-0283/2001 del 20 settembre 2001 e dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 359 del 2003 che lo descrive come "il fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo", sottolineando che le condotte possano "estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione".
Dal punto di vista civilistico, la Corte di Cassazione (sez. lav., sentenza n. 37895 del 17 febbraio 2009) ha definito mobbing la "condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.".
Oggettivamente, vengono dunque in considerazione le condotte caratterizzate da abitualità e continuità degli atti, che non necessariamente sono connotati da antigiuridicità, ma che si concretano in vessazioni nei confronti della vittima, tanto da cagionare a quest'ultima una condizione di stress psico-fisico.
Dal punto di vista penalistico, la Corte di Cassazione ha circoscritto l'ambito di applicazione dell'ipotesi di cui all'art. 572 c.p. ai casi di maltrattamenti posti in essere in costanza e in occasione di rapporti di lavoro subordinati, sempreché le fattispecie concrete si riferiscano a i) imprese di dimensioni particolarmente ridotte; ii) relazioni tra datore di lavoro e dipendente particolarmente intense e abituali, sì che il rapporto tra i due possa qualificarsi di natura para-familiare; iii) consuetudini di vita tra i soggetti; iv) soggezione di una parte nei confronti dell'altra; v) fiducia riposta dal soggetto debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass. pen., sez. VI, 11 aprile 2012 n. 16094).
Nella pronuncia di merito da cui abbiamo preso le mosse, si evidenzia il percorso delineato dalla giurisprudenza di legittimità per riscontrare l'effettiva sussistenza degli estremi che integrano la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 572 c.p. nel caso in esame.
Si precisa inoltre che il reato in questione è a forma libera e consiste in una serie di atti lesivi dell'integrità fisica o morale, della libertà o del decoro delle persone sottoposte, in modo tale da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni fra il soggetto attivo e le vittime; "si tratta dunque di un reato abituale che per essere integrato richiede la ripetizione di una serie di fatti, che - considerati isolatamente - potrebbero anche non avere rilevanza penale, ma la assumono alla luce della reiterazione del dolo".
Citando altra pronuncia del GUP del Tribunale di Milano, viene poi messo in luce che in ambienti di piccole dimensioni "il subordinato non è un semplice 'inferiore', con propri diritti e doveri ben codificati, ma viene coinvolto in un rapporto diretto e personale con il suo superiore", con il quale si crea una relazione fiduciaria che deve (o dovrebbe) essere preservata da eventuali abusi. Ciò che viene leso in questi casi - prosegue il GUP - non "è solo un diritto del dipendente, ma una sua condizione umana e i maltrattamenti rendono insopportabile non solo l'orario di lavoro, ma la vita quotidiana", tanto più che in simili contesti non è possibile per il dipendente ottenere un trasferimento, cambiare ufficio o rivolgersi all'autorità superiore.
L'elemento soggettivo proprio dell'ipotesi di reato è il dolo generico; non v'è dunque necessità che l'agente sia mosso dall'intento specifico di maltrattare le vittime, essendo sufficienti la coscienza e la volontà di sottoporle a continuate sofferenze e vessazioni che avviliscono la personalità delle persone offese, mentre sono indifferenti le "finalità" della condotta maltrattante.
La pronuncia del GUP di Milano si segnala altresì per la commisurazione della pena irrogata in concreto (un anno di reclusione), l'entità del risarcimento riconosciuto sia pure in via equitativa alle parti civili costituite (euro diecimila), ma anche per la declaratoria di provvisoria esecutività della condanna al risarcimento del danno "considerando la disparità esistente nella condizione patrimoniale del datore di lavoro e del lavoratore che ha perso la retribuzione".
Dobbiamo peraltro aggiungere che se la Corte di Cassazione limita l'applicazione dell'ipotesi di cui all'art. 572 c.p., la Magistratura di merito tende a utilizzare lo strumento della riqualificazione giuridica del fatto nell'ottica di tutelare comunque il lavoratore, cioè il soggetto debole nel rapporto di lavoro subordinato.
Saranno dunque sempre meno frequenti le sentenze assolutorie del datore di lavoro, almeno quando venga imputato per il reato di cui all'art. 572 c.p., poiché seppure non ricorreranno gli elementi più sopra richiamati, egli potrà essere ritenuto responsabile per le condotte che possono integrare la fattispecie penale sottesa alla citata ipotesi da un punto di vista oggettivo.
Se verrà così provato (e non sarà infrequente, poiché non è generalmente facile confutare le dichiarazioni della persona offesa o della parte civile) che il datore di lavoro abbia offeso il lavoratore con espressioni del tipo "sei uno scemo, non sai fare il tuo lavoro, ... guarda che ...", risponderà del reato di ingiuria, di minacce e/o di lesioni e, previa riqualificazione del fatto, condannato per tali reati alle pene per essi previste, con risarcimento per danni non patrimoniali, a titolo di provvisionale.
In conclusione, anche in mancanza di una codificazione del reato di mobbing, il nostro ordinamento si è prontamente adeguato alla direttiva europea; sicché pur se inizialmente la fattispecie qui esaminata era di stampo prettamente civil-lavoristico e chi sceglieva la sede penale veniva penalizzato con una pronuncia assolutoria ex art. 530 c.p.p. (perché il fatto non è previsto dalla legge come reato), capita ora sempre più spesso che si pervenga comunque alla punizione del datore di lavoro. Con buona pace dei garantisti.
Emanuela Strina e Francesco Daddi, avvocati in Milano
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