mercoledì 30 aprile 2014

CSM: SOLUZIONI ORGANIZZATIVE E DIFFUSIONE DI BUONE PRASSI PER LA MAGISTRATURA DI SORVEGLIANZA. A colloquio con Giovanna Di Rosa


Dalla Commissione Mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza all'esito del monitoraggio riguardante l'attuazione della "Risoluzione in ordine a soluzioni organizzative e diffusione di buone prassi in materia di magistratura di sorveglianza":  affrontiamo l'argomento con Giovanna Di Rosa, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di sorveglianza di Milano, attualmente in carica al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), autrice della relazione della Commissione Mista per lo studio dei problemi della Magistratura di Sorveglianza presentata nel novembre 2012 al salone della giustizia di Roma, che ha dato spunto all'adozione della Risoluzione del 24 luglio 2013.  

Risoluzione, con la quale il Consiglio ha deliberato inviti e raccomandazioni volti a una sostanziale semplificazione e accelerazione del procedimento di sorveglianza, almeno per taluni istituti quali la rateizzazione, la conversione e l' estinzione delle pene pecuniarie, la remissione del debito e la riabilitazione; ma anche a una maggiore efficienza ed efficacia dell'attività dei tribunali di sorveglianza su alcuni snodi cruciali, quali la fissazione delle udienze collegiali e il coordinamento tra la direzione del carcere e l'ufficio del magistrato di sorveglianza, al fine di realizzare un miglioramento delle condizioni di detenzione.

Il miglioramento delle condizioni detentive è infatti evidentemente il fine sotteso all'intera iniziativa consiliare.  La Risoluzione ha coinvolto molti aspetti specifici della spinosa questione, puntando a verificare come assicurare il più possibile il mantenimento dei condannati nel territorio di residenza; consentire la realizzazione di un regime detentivo "aperto" – cioè che permetta di trascorrere gran parte della giornata fuori dalle celle - per i detenuti definitivi ritenuti non pericolosi; favorire il contatto frequente dei detenuti con i familiari, con una maggiore flessibilità degli orari di accesso al carcere nei giorni festivi; migliorare la gestione della sanità penitenziaria e, in generale, della salute del detenuto con verifica dei tempi dei ricoveri, degli interventi, delle visite specialistiche, delle modalità di assistenza sanitaria, costituendo tavoli tra Regioni, ASL, magistratura di sorveglianza, amministrazione penitenziaria; rendere migliore il trattamento dei soggetti tossicodipendenti con soluzioni organizzative e protocolli di intesa tra magistratura di sorveglianza, amministrazione penitenziaria, Ser.T e Regioni; incrementare la collaborazione tra il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (DAP) e la magistratura di sorveglianza con l'istituzione di tavoli permanenti di consultazione e confronto a livello centrale e periferico; auspicare la possibilità di adottare un collegamento audiovisivo fra gli istituti penitenziari, i tribunali e gli uffici di sorveglianza per la celebrazione delle udienze camerali, "rogatorie" e almeno taluni colloqui fra magistrato di sorveglianza e detenuti, a costi molto contenuti, attraverso la rete intranet del Ministero della Giustizia.   

Il monitoraggio del CSM si è concentrato per un intero semestre sulla effettiva concretizzazione delle risoluzioni consiliari mediante l'invio agli uffici di sorveglianza del territorio nazionale di questionari contenenti specifici quesiti e l'invito a descrivere lo stato di attuazione di ciascuna proposta, le iniziative a tal fine intraprese, il relativo grado di condivisione, le criticità riscontrate e gli eventuali suggerimenti con finalità correttiva o migliorativa.

Il 23 gennaio 2014 il CSM si è soffermato sui risultati dell'indagine condotta per trarne ampie e puntuali conclusioni, che tuttavia non tengono conto delle disposizioni contenute nel dl n. 146 del 23 dicembre 2013 (c.d. "svuota carceri"), emanato quando si era in piena fase di raccolta dei dati e che, va evidenziato, ha affrontato direttamente talune questioni risolvendole nella direzione indicata nella Risoluzione, principalmente in tema di semplificazione e accelerazione del procedimento di sorveglianza (vd. post 3 gennaio 2014).


* * *
Con la dottoressa Di Rosa approfondiremo i tre punti messi in luce nelle valutazioni conclusive del monitoraggio, in base a quanto emerso dalle risposte fornite dagli uffici giudiziari rispetto al questionario proposto, e cioè la "diversa percezione della funzione del magistrato di sorveglianza", "le difficoltà operative che caratterizzano alcuni uffici di sorveglianza" e "l'importanza del ruolo del DAP per la diffusione dei dati e degli elementi emersi dal monitoraggio".

1.            Rispetto al primo punto, il Consiglio rileva che le opinioni si dividono fondamentalmente in quelle che considerano il magistrato di sorveglianza un "giudice terzo in area strettamente giurisdizionale" e quelle che lo ritengono capace di svolgere "anche compiti 'propulsivi' nella modifica delle condizioni di detenzione".
Cosa c'è dietro questa "diversa percezione" del magistrato di sorveglianza,  e quali sono le sue implicazioni.

L'espressione "diversa percezione" sintetizza la lettura dei dati e tenta di spiegare le varie risposte fornite dagli uffici giudiziari su domande uguali. La delibera del 23 gennaio 2014  è stata emessa infatti sulla base di un questionario in cui si chiedeva a tutti i tribunali e uffici di sorveglianza d'Italia se avessero nel frattempo recepito (per gli uffici in cui esse non erano già in uso, ovviamente) le buone prassi indicate nella delibera del precedente luglio, se le avessero condivise o se avessero soluzioni diverse e quali fossero le eventuali ragioni di criticità o di non adesione.

Le buone prassi erano a loro volta il frutto di esperienze positivamente praticate in taluni uffici (quello di Milano per primo, e proprio per questo le avevo personalmente formulate in sede di Commissione) o di possibile ed utile introduzione nel sistema.

Nel gennaio 2014, il CSM ha quindi deciso di monitorare una sua risoluzione, verificando così, positivamente e in maniera innovativa, la tenuta e la criticità delle sue precedenti indicazioni.

Le risposte contenute nei questionari, lette ed elaborate a cura della Commissione Mista presso il CSM che presiedo, sono risultate talvolta agli antipodi tra loro; hanno cioè rivelato un modo di interpretare la funzione di sorveglianza assai variegato.

Sintetizzando, è emersa, da un lato, una posizione "interventista", che opera con maggiore ricorso ai propri poteri istruttori e di vigilanza e dall'altro una posizione di "verifica esterna" e "dall'alto", che esclude siano di competenza della propria giurisdizione il sollecitare o l'attivare iniziative organizzative e tavoli di lavoro sia per lo svolgimento dell'attività propria, sia per le decisioni che riguardano le richieste di benefici o che più ineriscono al fine di vigilanza. Si va insomma da un giudice dotato di specifici compiti propulsivi a un giudice terzo in area strettamente giurisdizionale. Su questo punto lo stesso Consiglio Superiore conclude auspicando la necessità di un maggior confronto della magistratura di sorveglianza a livello nazionale.

Il tema è delicato, perché interagisce con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura, ed è su questi binari che va ricondotto. Sono convinta che la sede della formazione dei magistrati sia quella propria per lo sviluppo di queste riflessioni, in un confronto continuo tra giudici del settore penale, inclusi i pubblici ministeri, e i magistrati di sorveglianza; ho infatti avuto occasione di parlarne alla Scuola Superiore della Magistratura.

Certamente l'autonomia decisionale del singolo magistrato non è comprimibile né dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza, né tramite le riunioni periodiche per l'approfondimento della giurisprudenza che i singoli uffici devono mensilmente tenere. Occorre però che si crei un punto di incontro, in modo che operatori, difensori, e gli stessi condannati possano recepire correttamente le decisioni del singolo magistrato o tribunale di sorveglianza.

Il confronto tra queste diverse visioni della funzione di sorveglianza è di cruciale importanza, e risponde alla domanda se sia possibile che alcuni magistrati concedano più misure alternative, tramite una diversa lettura interpretativa dei propri poteri istruttori mediante il richiamo della magistratura alle risorse del territorio, con l'impegno dell'amministrazione penitenziaria locale ad attingervi e dell'amministrazione centrale alle opportune sollecitazioni anche politiche.

La tutela dei diritti investe tanti spazi, dal vitto differenziato per gli ammalati agli interventi riabilitativi, dalla possibilità di assicurare sempre colloqui e telefonate a tutti all'ordinata tenuta della cartella personale del detenuto, dalle graduatorie ai criteri di assegnazione al lavoro, dall'assegnazione alle sezioni all'ubicazione di taluni presso le sezioni protette, prive di trattamento, dalle modalità delle perquisizioni all'ordine generale di gestione delle diverse pratiche, fino al rispetto delle regole nell'irrogazione della sanzione disciplinare.
Villa Castelpulci a Scandicci, sede della SSM

Ma occorre assicurare una sensibilizzazione e un confronto costante, purtroppo non da tutti condivisi, avviando una collaborazione stabile per assicurare il diffondersi della cultura della tutela dei diritti e del rispetto delle regole. Detto ciò, non tocco ovviamente il tema della discrezionalità della magistratura di sorveglianza, che la delibera non ha trattato -   non avendo il CSM neppure competenza su questo - ma è evidente che la questione involge anche tale tematica.

Personalmente ritengo che la diversificazione di prassi interpretative - che porta a risultati diversi, quando non opposti, nello svolgimento dell'attività giurisdizionale - sia una criticità del sistema, tanto più se rapportata ad evidenti disparità, anche all'interno dei singoli istituti, e credo sia necessario verificare i confini tra i vari principi costituzionali che di norma si richiamano. 

Pensiamo, d'altra parte, che la CEDU, nella nota sentenza Torreggiani, ha segnalato la necessità per lo Stato di monitorare l'attività giudiziaria in relazione al problema del sovraffollamento carcerario. Pensiamo anche che il maggior ricorso alle misure alternative e la riduzione dell'applicazione della custodia cautelare sono argomenti espressi dalla Corte  - pure tramite il richiamo alle raccomandazioni dei Ministri del Consiglio d'Europa -  che così invita gli Stati a esortare in questa direzione giudici e procuratori.

In definitiva, riprendendo il filo della considerazione iniziale, dalla Risoluzione emerge che non per tutti i magistrati si debba necessariamente arrivare a tutto il concedibile, se ciò comporta il ricorso a passaggi istruttori e sollecitazioni ulteriori che aiutano in questa direzione.

La stessa Risoluzione, del resto, pur dovendo rimanere necessariamente neutra, esplicita le soluzioni per meglio lavorare e consentire più velocemente ai magistrati di decidere le loro pratiche, secondo una lettura rinnovata e propositiva dei rapporti istituzionali con l'amministrazione penitenziaria, mediante l'intervento diretto del magistrato che si siede ai tavoli di lavoro e segnala ciò che occorre.

* * *

2.            Circa le "difficoltà operative che  caratterizzano alcuni uffici di sorveglianza", dagli esiti del monitoraggio è emersa una "disomogeneità" di situazioni "a livello nazionale, caratterizzata dalla diversità di carichi di lavoro".
A cosa è dovuta questa "disomogeneità", e come sarebbe possibile rimediarvi?

Le risposte disomogenee riguardano per esempio la necessità di fare ricorso a prassi acceleratorie come le autorizzazioni preventivamente concesse ai soggetti in misura alternativa per partecipare ad eventi predeterminati (ad esempio, le udienze).

Taluni uffici hanno sorprendentemente riferito di avere risorse sufficienti per non dover fare ricorso a strategie e procedure semplificate. Il che si spiega con il problema ricorrente, che affligge tutti gli uffici giudiziari d'Italia, ossia il carico di risorse inadeguato rispetto alle necessità effettive dei singoli e riguarda evidentemente uffici in esubero rispetto ad uffici con grande difficoltà.

Il problema si è attualizzato anche perché le modifiche sulle presenze negli istituti di pena a seguito dei recenti riordini del DAP nei vari istituti penitenziari non sono (né sono mai state) accompagnate da modifiche sulle piante organiche di magistrati e personale amministrativo presso i corrispondenti uffici giudiziari, così come è avvenuto anche per la revisione della circoscrizioni giudiziarie.

Seppure a questa ultima difficoltà pare che il Ministero stia per porvi un qualche rimedio, non si potrà prescindere da un necessario e urgentissimo intervento di potenziamento delle piante organiche e del personale amministrativo della cui richiesta si è fatto carico anche il CSM con una delibera dell'ottobre 2013 recante interventi urgenti sulle piante organiche (e ciò sulla base dei lavori della Commissione Mista al suo interno operante, che aveva effettuato un monitoraggio capillare sulla crescita di pendenze nei singoli uffici e sulla constatazione dell'aumento verticale del numero di detenuti definitivi negli istituti penitenziari rispetto agli anni precedenti).
* * *

3.            Riguardo infine all' "importanza del ruolo del DAP per la diffusione dei dati e degli elementi emersi dal monitoraggio", quale necessità si è evidenziata, e a quale fine?

La Risoluzione sottolinea la necessità di facilitare le procedure di comunicazione tra magistratura e DAP per la più sollecita definizione delle istanze, il ricorso al miglior utilizzo dei canali informatici per consentire alla magistratura di decidere più velocemente grazie all'invio dei necessari atti istruttori da parte del DAP e dei singoli istituti per via telematica, la raccomandazione di un utilizzo pieno dell'affidamento terapeutico, in tutti i casi in cui ciò sia possibile, l'impegno dell'individuazione di linee-guida comuni per procedure di diagnosi e relative certificazione onde evitare le inammissibilità formali delle domande, la necessità di diffusi accordi su relazioni di osservazione semplificate per le misure alternative con fine-pena brevi e un approccio generale al dialogo attraverso la costituzione di tavoli di lavoro.

La necessità di un rapporto collaborativo al fine di una migliore comprensione delle reciproche esigenze e difficoltà è una cosa ovvia, ma il questionario ha dimostrato come non sia ancora una realtà praticata nemmeno all'interno dell'amministrazione penitenziaria.

Non serve ora individuare le responsabilità storiche dello stato attuale delle cose, ma occorre affrontarle in positivo e cominciare tutti un percorso di crescita. In questa direzione, la formazione del personale dell'amministrazione penitenziaria mediante la partecipazione ai relativi corsi da parte dei magistrati, così come la partecipazione all'attività formativa dei magistrati da parte dell'amministrazione penitenziaria, può costituire un'occasione di utile scambio e sviluppo di riflessioni ulteriori e migliorative in questa direzione.
  
* * *
In sintesi, per concludere sui tre punti attorno ai quali si sono svolte le considerazioni di Giovanna Di Rosa, l'auspicio sotteso alla Risoluzione è che si verifichino le condizioni per cui ogni magistrato di sorveglianza possa svolgere la propria attività concretamente sul campo e al meglio, cominciando da subito a sfruttare tutte le risorse, soprattutto umane, disponibili, per e tra le quali occorre tuttavia creare un collegamento efficace, in modo che proprio il colloquio, il confronto e il contraddittorio all'interno della magistratura di sorveglianza, e fra quest'ultima e l'amministrazione penitenziaria, diventino il fulcro del sistema attorno al quale realizzare le migliori condizioni per l'operato di ciascuna componente del delicato settore dell'esecuzione penale.

Clicca qui per scaricare la delibera plenaria del 23 gennaio 2014 

venerdì 25 aprile 2014

EMERGENZA CARCERI: UN NUOVO APPELLO


Nell'imminenza della scadenza imposta dalla Corte Europea dei Diritti dell'uomo con la sentenza Torreggiani e del semestre di presidenza italiana dell'Unione Europea, associazioni, volontari e cooperative che operano nella realtà della detenzione hanno indirizzato un nuovo appello al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, richiamando ancora una volta l'attenzione sulle carceri italiane e sulle problematiche a queste connesse.


Un modo per non abbassare la guardia, per sostenere chi si sta adoperando sulla via del cambiamento e per combatter chi invece punta all'immobilismo.

PalaGius contribuisce alla diffusione dell'appello e chiede a chi vuole di aderirvi inviando una mail all'indirizzo appellocarceri2014@gmail.com.

Clicca qui per leggere l'appello (il testo include le adesioni al 29 aprile 2014)

mercoledì 23 aprile 2014

UN SOLO AVVOCATO CHE ASSISTE ENTRAMBI I CONIUGI, NON PUO’ DIFENDERNE UNO CONTRO L’ALTRO NELL’ INCARICO SUCCESSIVO

Generalmente gli avvocati lo sanno: capita spesso di dover spiegare che se i coniugi si rivolgono a un unico avvocato per la separazione, lo stesso avvocato non può poi rappresentare e difendere uno dei due contro l'altro in una successiva eventualità di disaccordo relativa alla medesima vicenda familiare.

Recentemente, tuttavia, pur in via incidentale - nel dichiarare inammissibile il ricorso - le sezioni unite della Cassazione hanno avuto occasione di affrontare la questione, mostrando di aderire all'orientamento del Consiglio Nazionale Forense, che aveva confermato la decisione del Consiglio dell'Ordine di irrogare la sanzione disciplinare della censura a un avvocato che aveva assistito entrambi i coniugi in sede di separazione, difendendo poi - nemmeno due anni dopo -  la moglie contro il marito nel giudizio instaurato per la modifica delle condizioni (di separazione).

La pronuncia è interessante perché la Corte di legittimità richiama quanto stabilito dall'articolo 51 del codice deontologico forense del 1997  per rilevare che il giudice disciplinare ritiene che  "ai fini della configurabilità dell'illecito di assunzione di incarichi contro una parte già assistita, non importa stabilire se sussista o meno la prova del conferimento formale del mandato o dell'assolvimento di un'attività di consulenza, quanto piuttosto se l'avvocato abbia svolto un'attività di assistenza, anche soltanto formale."

Secondo il citato articolo 51  "l'avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve astenersi dal prestare, in favore di uno di essi, la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi" , mentre secondo l'articolo 68 comma  4 del codice deontologico forense approvato dal CNF il 30 gennaio 2014 (in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) "l'avvocato che abbia assistito congiuntamente coniugi o conviventi in controversie di natura familiare deve sempre astenersi dal prestare la propria assistenza in favore di uno di essi in controversie successive tra i medesimi".

Clicca qui per scaricare la sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 8057 del 2014
Clicca qui per scaricare il codice deontologico forense del 1997
Clicca qui per scaricare il codice deontologico forense del 2014 




sabato 19 aprile 2014

VITTIME DI REATI INTENZIONALI VIOLENTI: CHI RISARCISCE QUANDO IL COLPEVOLE NON HA RISORSE ECONOMICHE?


Le recenti cronache hanno registrato la condanna di Kabobo, colpevole di  tre omicidi a picconate, alla pena detentiva (vent'anni di carcere) e al risarcimento dei familiari delle vittime.  

Ma se il colpevole è nullatenente (come nel caso di Kabobo), è rimasto sconosciuto o non è concretamente perseguibile (perché, per esempio, si è dato alla fuga),  le vittime sono destinate a rimanere insoddisfatte?
 
La questione è aperta. E' da sapere però che la direttiva 2004/08/CE del 29 aprile 2004 ha stabilito che tutti gli Stati membri debbano provvedere a che le normative nazionali istituiscano un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, capace di garantire un indennizzo equo e adeguato delle vittime.

La direttiva ha riconosciuto il diritto di presentare domanda di indennizzo nello Stato membro di residenza, ma gli Stati membri debbono assicurare che se un reato intenzionale violento è stato commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui la vittima risiede abitualmente, la domanda di indennizzo possa essere presentata presso un'autorità o un qualsiasi altro organismo di quest'ultimo Stato membro (c.d. situazioni transfrontaliere).

La direttiva aveva previsto due termini: quello del 1° luglio 2005 per attuare il sistema di indennizzo e quello del 1° gennaio 2006 per l'entrata in vigore delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie ai fini dell'erogazione concreta dell'indennizzo nelle situazioni c.d. transfrontaliere.

Lo Stato italiano è inadempiente rispetto a entrambi i termini, come dichiarato dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea nella sentenza del 29 novembre 2007.  In alcune pronunce dei giudici nazionali è stata ritenuta la responsabilità dello Stato, e segnatamente della Presidenza del Consiglio dei Ministri,  per violazione del diritto dell'Unione Europea e, in particolare, per il mancato recepimento della direttiva 2004/08/CE, con la conseguente condanna al versamento di un indennizzo alla vittima di un reato intenzionale  violento.

La prima sentenza sul tema è stata del Tribunale di Torino (sentenza 6 maggio 2010 n. 3145) che riguardava il caso di una giovanissima ragazza, sequestrata, percossa e violentata per un'intera notte da due ragazzi. I fatti erano stati accertati in sede penale, ma i due responsabili si erano resi latitanti nel corso del processo e non avevano comunque risorse per risarcire la giovane.  Accertato l'inadempimento dello Stato italiano rispetto alla direttiva citata sopra, applicati i principi della Corte di Giustizia, ma anche delle Corte di legittimità nazionale,  in tema di responsabilità per mancata attuazione di direttiva comunitaria, il Tribunale ha condannato la Presidenza del Consiglio a riparare alle gravi "conseguenze morali  e psicologiche" subite dalla ragazza, liquidando in via equitativa la somma di 90.000 euro.  

Da evidenziare che il Tribunale ha ritenuto che lo Stato italiano non abbia attuato la direttiva in commento neppure con il decreto legislativo n. 204 del 2007, che pure è intitolato all'attuazione della direttiva 2004/08/CE, perché esso "disciplina solo gli aspetti formali della procedura sul presupposto che siano già altrimenti individuati (alcuni e non tutti) i reati intenzionali e violenti cui ricollegare il sistema di indennizzo. Il decreto legislativo citato infatti all'art. 1 /…/ riconosce l'accesso alla tutela risarcitoria solo allorché nel territorio di uno Stato membro dell'Unione europea sia stato commesso un reato che dà titolo a forme di indennizzo previste in quel medesimo Stato e non già  per tutti i reati intenzionali violenti come invece pare imporre la lettera della direttiva. 
Al proposito si reputa che gli obblighi dello Stato italiano non possano dirsi esauriti con le previsioni legislative anteriori all'entrata in vigore della direttiva aventi ad oggetto gli indennizzi per le vittime di atti di terrorismo e di criminalità organizzata, di reati estorsivi e di usura poiché pur in presenza di tali previsioni la Corte di Giustizia già aveva ravvisato l'inadempimento dello Stato italiano.
Né d'altra parte si può condividere l'assunto secondo cui rientra nel potere discrezionale dei singoli Stati nazionali selezionare discrezionalmente le tipologie di reati violenti e di circoscrivere la gamma di reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato ai fini indenni tari, poiché l'art. 12 [della direttiva, n.d.r.] non consente agli Stati questa discrezionalità laddove prescrive che tutti gli Stati membri devono predisporre un sistema indennitario delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato alle vittime.".

La pronuncia del Tribunale di Torino è stata poi confermata dalla Corte di Appello con sentenza del 23 gennaio 2012 n. 106 pur se l'ammontare della somma riconosciuta alla ragazza è stata ridotta a 50.000 euro ritenendo che si trattasse di un indennizzo, e non già di un risarcimento inteso quale integrale ristoro dei danni subiti. La Corte di Appello ha infatti precisato che la "ratio della normativa nazionale e comunitaria in tema di indennizzo delle vittime di reati violenti non può essere certamente quella di sostituire o aggiungere lo Stato all'autore del delitto nella responsabilità verso le vittime; che l'obbligo che la Direttiva pone agli Stati è invero solo quello di predisporre un indennizzo equo ed adeguato; che i criteri di liquidazione di tale indennizzo dovrebbero essere pertanto del tutto autonomi rispetto ai parametri di liquidazione del risarcimento ordinario dovuto dai responsabili del fatto di reato". Pur considerando la gravità delle circostanze di tempo e di luogo in cui si sono svolti i fatti criminosi, le modalità con i quali i reati sono stati commessi, le conseguenze morali e psicologiche subite dalla vittima, tenuto conto della giovanissima età nel caso concreto (diciotto anni appena compiuti), ma anche che "il sistema istituito prevede un indennizzo tale da assicurare una idonea compensazione, che proviene peraltro da un soggetto che non ha responsabilità per i fatti di causa", la Corte ha dunque ritenuto equo e adeguato il predetto importo di euro 50.000.

Fino a che perdurerà l'inadempimento dello Stato italiano in relazione alla direttiva 2004/08/CE, il precedente posto dal Tribunale di Torino, di poi confermato dalla Corte di Appello, costituirà, nelle situazioni c.d. transfrontaliere,  il necessario riferimento per le vittime di reati intenzionali violenti che non hanno la possibilità di essere risarcite dai colpevoli privi di risorse economiche, rimasti sconosciuti o comunque non perseguiti o perseguibili.

Le vittime (o i familiari di esse, come nel caso di Kabobo) dovranno tuttavia mettere in conto che l'indennizzo dello Stato non solo non è per nulla scontato, ma potrà conseguire solo all'esito del giudizio civile instaurato al termine del processo penale che abbia accertato in via definitiva fatti e responsabilità degli autori dei reati intenzionali violenti loro contestati.

Clicca qui per scaricare la direttiva 2004/08/CE
Clicca qui per scaricare la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 29 novembre 2007
Clicca qui per scaricare la sentenza del Tribunale di Torino 6 maggio 2010 n. 3145
Clicca qui per leggere il decreto legislativo 9 novembre 2007 n. 204 
Clicca qui per leggere la sentenza della  Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 17 aprile 2009 n. 9147
Clicca qui per leggere la sentenza della Corte di Appello di Torino, 23 gennaio 2012 n. 106



giovedì 10 aprile 2014

TRIBUNALE DI MILANO: un punto informativo per il dibattimento penale


Nel salone centrale del primo piano del Tribunale di Milano è attivo dal 7 aprile 2014 il nuovo Punto Informativo Dibattimento Penale presso il quale è confluita l'erogazione di taluni servizi, a favore degli avvocati, che riguardano le 11 sezioni, più le c.d. direttissime, del dibattimento penale.


Il servizio principale è quello del rilascio di copie libere di sentenze e trascrizioni  emesse e/o disponibili a partire dal 7 aprile, che possono essere richieste anche via mail all'indirizzo infodibattimento.tribunale.milano@giustizia.it.   V'è pure la possibilità di effettuare il pagamento dei relativi diritti allo sportello o in via telematica (utilizzando la firma digitale presso il portale Giustizia: pst.giustizia.it) e di ricevere la copia digitale direttamente al proprio indirizzo di posta elettronica, con evidente vantaggio soprattutto per gli avvocati di fori diversi da quello milanese.

Cliccando qui si viene rinviati all'apposita sezione del sito web del Tribunale, nella quale sono riportate tutte le indicazioni necessarie all'utilizzo del servizio. Nella stessa sezione è possibile verificare, senza alcuna autenticazione, l'avvenuto deposito di sentenze e trascrizioni: è sufficiente inserire il numero di RG del Tribunale e dell'anno cui tale numero si riferisce.

Presso il nuovo Punto Informativo si ottengono inoltre informazioni  (sullo stato del processo, sulle date e sull'ubicazione delle udienze, sul funzionamento degli uffici e sulle procedure);  si ricevono le impugnazioni esterne; si distribuisce modulistica, ed è stato altresì istituito uno sportello dedicato al supporto informatico agli avvocati.

L'accesso al Punto è regolato da un sistema di gestione di tre code:
Coda A per le informazioni, la modulistica, la richiesta e il rilascio delle copie semplici di sentenze e trascrizioni
Coda B per la ricezione delle impugnazioni esterne
Coda C informazioni e assistenza sull'implementazione di tutti i servizi informatici predisposti o convenzionati dall'Ordine, a favore degli avvocati.

Clicca qui per scaricare il comunicato del Tribunale sul Punto Informativo